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Ged guardava con espressione assorta il fianco della montagna, sopra di loro. «Conoscevo un posto…» disse.

«Bene», rispose Tenar.

Poco prima della curva da cui si scorgeva Porto Gont, Ged lasciò la strada per inoltrarsi nella foresta che copriva il ripido pendio del monte. Il sole al tramonto illuminava di rosso e di oro le ombre fra un tronco e l’altro e quelle sotto i rami. Salirono per circa mezzo miglio, senza seguire un sentiero riconoscibile — almeno agli occhi di Tenar — e si trovarono su una piccola radura coperta d’erba sul fianco della montagna, riparata dal vento, grazie a una parete di roccia che la chiudeva da un lato, e agli alberi che la circondavano sugli altri lati. A nord si vedevano le vette delle montagne, e, oltre le cime dei grandi abeti, si scorgeva il mare a occidente. Nella radura regnava il più assoluto silenzio, tranne nei momenti in cui il vento soffiava tra gli alberi. Un’allodola di montagna cantò a lungo, dolcemente, tra i rami illuminati dal sole, prima di fare ritorno al suo nido nell’erba non calpestata.

I tre viandanti mangiarono pane e formaggio. Guardarono l’oscurità che saliva sulle montagne a partire dal mare. Poi si avvolsero nei mantelli e dormirono l’uno accanto all’altro. Nella notte, Tenar si svegliò. A poca distanza da loro, un gufo lanciava il suo richiamo: una nota dolce e prolungata, come quella di una campana, e il compagno, dall’alto della montagna, gli rispondeva come lo spettro della sua eco. Tenar si disse: «Voglio vedere le stelle che tramontano nel mare», ma si addormentò subito, in perfetta tranquillità di cuore.

Si svegliò nel grigio del mattino e vide che Ged, accanto a lei, si era messo a sedere, con il mantello ben stretto sulle spalle, e guardava in direzione dell’occidente, nel varco tra gli alberi. Il suo volto scuro era immobile, assorto nel silenzio, come Tenar lo aveva visto tanti anni prima, sulla spiaggia di Atuan. Tuttavia, diversamente da allora, non abbassava gli occhi, ma fissava l’orizzonte illimitato. Seguendo la direzione del suo sguardo, anche Tenar vide giungere il giorno, il trionfo del rosa e dell’oro che si riflettevano su tutto il cielo.

Ged si voltò verso Tenar, e lei gli disse: «Ti ho sempre amato, fin da quando ti ho visto la prima volta».

«Donatrice di vita», rispose lui, chinandosi a baciarla sulla bocca e sul petto. Lei lo abbracciò per un istante. Poi si alzarono, svegliarono Therru e proseguirono il cammino; ma quando raggiunsero gli alberi, Tenar si girò a guardare la piccola radura, come per chiederle di non tradire la felicità da lei provata in quel luogo.

Il primo giorno avevano pensato soltanto al viaggio, ma ora dovevano arrivare a Re Albi. Tenar pensò molto a Zia Muschio, chiedendosi che cosa le fosse successo, e se fosse davvero in punto di morte. Ma con il procedere della giornata, a mano a mano che il villaggio si avvicinava, faceva sempre più fatica a pensare a Muschio, o a qualsiasi altra cosa. Era stanca. Non le piaceva l’idea di rifare quel tragitto verso un moribondo. Arrivarono a Fontana delle Querce, scesero nella valle e poi risalirono. Ma nell’ultimo pezzo in salita, lungo e ripido, verso il Grande Precipizio, Tenar muoveva le gambe con fatica e aveva la mente confusa: pensava a una parola o a un’immagine finché questa non perdeva ogni significato, per esempio l’armadio con i piatti e le tazze, nella casa di Ogion, o le parole «delfino d’osso» (che le erano venute in mente nel vedere il sacchetto di fili d’erba contenente i giocattoli di Therru) e che continuavano a ripetersi all’infinito.

Ged aveva il passo regolare della persona abituata a camminare, e Therru gli teneva dietro, senza difficoltà: la stessa Therru che, un anno prima, era rimasta senza forze poco dopo avere iniziato la salita, e si era fatta portare in braccio. Ma quella volta aveva camminato molte più ore. E non era ancora guarita bene dalle ferite della punizione.

Tenar cominciava a sentirsi troppo vecchia per camminare così in fretta e in salita. Alla sua età, una donna doveva stare a casa, vicino al fuoco. Delfino d’osso, delfino d’osso. L’uomo d’osso e l’animale d’osso. Erano davanti a lei. La stavano aspettando. Lei era lenta e stanca. Risalì a fatica l’ultimo tratto e li raggiunse dove la strada toccava l’orlo del Precipizio. A sinistra c’erano i tetti di Re Albi, che declinavano verso il Precipizio stesso. A destra la strada che saliva al castello. «Da questa parte», disse Tenar.

«No», disse la bambina, indicando a sinistra il villaggio.

«Da questa parte», ripeté Tenar, e prese la strada di destra. Ged la seguì.

Salirono tra alberi di noce e prati verdi. Nel tardo pomeriggio il clima era caldo, quasi estivo; dagli alberi si levò il richiamo degli uccelli. Da quelli vicini, ma anche da quelli lontani. L’uomo uscito dal grande castello venne verso di loro: l’uomo di cui Tenar non riusciva a ricordare il nome.

«Benvenuti!» disse, e si fermò sorridendo.

Anch’essi si fermarono.

«Che grandi personalità sono venute a onorare la casa del signore di Re Albi», disse. Tuaho? No, non si chiamava così. Delfino d’osso, animale d’osso, bambina d’osso.

«Lord Arcimago!» Gli rivolse un profondo inchino, e Ged si inchinò a sua volta.

«E Lady Tenar di Atuan!» Davanti a lei, fece un inchino ancor più profondo, e la donna si inginocchiò sulla strada, abbassò la testa e posò prima le mani sulla terra e poi anche la faccia.

«Adesso, striscia», disse l’uomo, e lei cominciò a strisciare verso di lui.

«Fermati», disse l’uomo, e lei si fermò.

«Puoi parlare?» chiese l’uomo, e lei non rispose, perché non le venne alle labbra alcuna parola, ma Ged rispose, con il suo solito tono pacato:

«Sì».

«Dov’è il mostro?»

«Non lo so.»

«Pensavo che la strega portasse con sé il suo demone familiare. Ma ha portato te, invece. Il Lord Arcimago Sparviero. Che meraviglioso sostituto! L’unica cosa che posso fare a mostri e streghe è liberare il mondo della loro presenza. Ma a te, che una volta eri un uomo, posso parlare; tu sei in grado di parlare razionalmente, almeno. E puoi capire la tua punizione. Ti credevi al sicuro, suppongo, con il tuo re sul trono, e il mio padrone — il nostro padrone — sconfitto. Pensavi di averla avuta vinta, e di avere distrutto la promessa di una vita eterna, vero?»

«No», disse Ged.

Tenar non poteva vederli. L’unica cosa che vedeva era la terra, davanti ai suoi occhi; la stessa terra di cui sentiva il sapore in bocca. Udì Ged rispondere: «’Nella morte è vita’».

«Bla, bla, cita i canti, Maestro di Roke… maestrino di scuola! Che divertente spettacolo, il grande Arcimago vestito da pastore, e non una briciola di magia dentro di lui… non una sola parola di Potere. Puoi fare un incantesimo, Arcimago? Uno piccolissimo, un piccolo incantesimo di illusione? No? Neppure una parola? Il mio padrone ti ha sconfitto. Adesso l’hai capito? Non l’hai vinto. Il suo Potere è vivo! Potrei tenerti vivo qui, per un po’ di tempo, per mostrarti quel Potere… il mio Potere. Per mostrarti il vecchio in cui ho vinto la morte… e potrei usare la tua vita per continuare a farlo, se ne avessi bisogno… e per vedere che il tuo re ficcanaso farà la figura del pagliaccio, con i suoi cortigiani pieni di smancerie e i suoi maghi idioti che cercano una donna. Farci comandare da una donna! Ma il comando è qui, il Potere è qui, in questo castello. Per tutto l’anno ho raccolto intorno a me uomini, gente che conosce il vero Potere. Alcuni vengono da Roke, da sotto il naso dei maestri. E da Havnor, da sotto il naso di quel cosiddetto Figlio di Morred, che vuole farsi comandare da una donna: il nostro re, che si crede talmente al sicuro da potersi chiamare con il suo nome vero. Conosci il mio nome, Arcimago? Ti ricordi di me, quattro anni fa, quando tu eri il grande Maestro dei Maestri, e io ero un umile studente di Roke?»

«Ti chiamavi Pioppo», rispose la voce paziente.