«E il mio nome vero?»
«Non conosco il tuo nome vero.»
«Oh, non lo conosci! E non puoi trovarlo? I maghi non conoscono tutti i nomi?»
«Io non sono un mago.»
«Oh, ridimmelo!»
«Io non sono un mago.»
«Mi piace sentirtelo dire. Ripetilo.»
«Io non sono un mago.»
«Ma io lo sono.»
«Sì.»
«Dillo bene!»
«Tu sei un mago.»
«Ah! È davvero meglio di quanto sperassi! Ho gettato l’amo per pescare l’anguilla, e invece ho preso la balena! Vieni, allora, vieni a conoscere i miei amici. Tu puoi camminare, lei può strisciare.»
E così salirono al castello del Signore di Re Albi e oltrepassarono la sua soglia, e Tenar percorse tutta la strada sulle mani e sulle ginocchia, e così rimase salendo i gradini di marmo davanti alla porta, e lungo i pavimenti di marmo dei corridoi e delle stanze.
L’interno del castello era buio, e quel buio entrò anche nella mente di Tenar, che capì sempre meno di quel che veniva detto. Solo alcune parole e alcune voci le giunsero chiaramente. Capiva quel che diceva Ged: quando Ged parlava, lei pensava al suo nome, e si afferrava mentalmente a esso. Ma Ged non parlava che raramente, solo per rispondere all’uomo che non si chiamava Tuaho. Questi, di tanto in tanto, si rivolgeva anche a lei, chiamandola cagna. «È la mia nuova cagna», diceva agli altri — numerosi altri, laggiù nell’oscurità, dove le candele proiettavano ombre -, «e guardate com’è addestrata bene! Rotola, cagna!» Lei rotolò su se stessa, e gli uomini risero.
«Aveva anche un cucciolo, una femmina», disse l’uomo, «e volevo darle il resto della sua giusta punizione, perché è bruciata solo da una parte. Ma invece mi ha riportato un uccello che ha catturato, uno sparviero. Domani gli insegneremo a volare.»
Altri parlarono, ma Tenar non era più in grado di capire le parole.
Le legarono qualcosa al collo, e la fecero salire a quattro zampe su un’altra scala, finché non entrò in una stanza che puzzava di orina, di carne andata a male e di fiori dolciastri, marci. Una mano gelida, simile a una pietra, la colpì debolmente sulla testa, mentre qualcuno rideva: «Eh, eh, eh», come il cigolio di una vecchia porta spinta avanti e indietro. Poi le diedero un calcio e le fecero percorrere a quattro zampe altri corridoi. Non riusciva a muoversi abbastanza in fretta, e allora le diedero altri calci, sul petto e sulla bocca. Una porta si chiuse pesantemente, e da allora in poi scese il silenzio. E il buio. Sentì piangere qualcuno, e pensò che fosse la bambina, la sua bambina. Pregò che la bambina non piangesse più. Finalmente non sentì più nulla.
TEHANU
Alla biforcazione, la bambina aveva preso a sinistra e aveva fatto parecchia strada prima di guardarsi indietro, nascosta dietro la siepe fiorita.
L’uomo chiamato Pioppo — il cui nome vero era Erisen, e che a lei appariva come una fiamma di tenebra con tante lingue guizzanti — aveva legato suo padre e sua madre: lei nella lingua, lui nel cuore, e li portava nel luogo dove si nascondeva abitualmente. Il puzzo di quel luogo era rivoltante, ma la bambina li seguì per un breve tratto per vedere che cosa facesse l’uomo. Li fece entrare e chiuse la porta alle loro spalle. Era di pietra. Lei non poteva superarla.
Avrebbe avuto bisogno di volare, ma lei non poteva farlo; lei non era di quelli con le ali.
Attraversò di corsa i campi, più in fretta che poté, e oltrepassò la casa di Zia Muschio, la casa di Ogion e quella delle capre, avviandosi lungo il sentiero che passava sull’orlo del Precipizio, dove lei non doveva andare perché non poteva vederlo con un occhio solo. Ma questa volta fu molto attenta. Guardò con attenzione, con l’occhio sano. Si fermò sull’orlo. L’acqua era molto distante, sotto di lei, e il sole tramontava in lontananza. Guardò verso occidente con l’altro occhio, e chiamò con l’altra voce, pronunciando il nome che aveva sentito nei sogni di sua madre.
Non attese una risposta, ma si voltò subito dall’altra parte e tornò indietro: prima passò davanti alla casa di Ogion, e si fermò a vedere se il suo pesco era spuntato. Sul vecchio albero c’erano molte pesche, piccole e verdi, ma non c’era traccia della sua piantina. Le capre se l’erano mangiata. O era morta perché lei non l’aveva innaffiata tutti i giorni. Si fermò per qualche momento a guardare il terreno, nel punto dove aveva seminato, poi trasse un lungo respiro e tornò verso la casa di Zia Muschio, attraverso i campi.
I polli che stavano andando a dormire starnazzarono e volarono da tutte le parti, protestando al suo ingresso. La capanna era buia e carica di odori. «Zia Muschio?» chiese lei, con la voce che usava per quelle persone.
«Chi c’è?»
La vecchia era a letto e si nascondeva. Era spaventata e cercò di fare un muro di difesa attorno a sé per allontanare tutti, ma la cosa non funzionò. Non era abbastanza forte.
«Chi è? Oh, cara, la mia povera bambina bruciata, la mia bella bambina. Che cosa fai qui? E dov’è tua madre? È qui? È venuta? Non entrare, non entrare, cara, c’è una maledizione su di me, cara, quell’uomo ha maledetto questa povera vecchia, non avvicinarti!»
Pianse. La bambina tese la mano e la toccò. «Sei fredda», disse.
«Tu sei come il fuoco, piccola, la tua mano mi brucia. Oh, non guardarmi! Mi ha fatto marcire la pelle, e raggrinzire, e poi marcire di nuovo, ma non mi vuole lasciar morire… Ha detto che servivo a farti venire qui. Ho cercato di morire, ma lui mi teneva in suo Potere, mi ha fatto vivere contro la mia volontà, non mi ha permesso di morire, oh, fammi morire!»
«Non devi morire», disse la bambina, aggrottando la fronte.
«Cara», sussurrò la vecchia, «cara… chiamami con il mio nome.»
«Hatha», disse la bambina.
«Oh, lo sapevo… Liberami, cara!»
«Devo aspettare», disse la bambina. «Finché non arriverà.»
La strega si calmò, respirò senza dolore. «Finché non arriverà chi, cara?»
«La mia gente.»
In quella della bambina, la mano grossa e fredda della strega sembrava un fascio di stecchi. Lei la tenne con fermezza. Adesso, all’esterno della capanna era buio come all’interno. Hatha, che veniva chiamata Muschio, si addormentò, e alla fine anche la bambina, seduta sul pavimento accanto al suo pagliericcio, e con una gallina appollaiata accanto, si assopì.
Gli uomini arrivarono quando giunse la luce del giorno. Lui disse: «Su, cagna! Su!» Lei si mise a quattro zampe, e l’uomo rise, dicendo: «Sulle zampe di dietro! Sei una cagna intelligente, puoi camminare sulle zampe di dietro, no? Così, bene. Fa’ finta di essere umana! Abbiamo molta strada da fare. Vieni!» Aveva ancora la corda al collo, e lui la tirò. Lei lo seguì.
«Ecco, tieni tu il guinzaglio», disse, e ora fu lui — l’uomo che lei amava, ma di cui non ricordava più il nome — a tenere la corda.
Uscirono dal castello buio. La bocca di pietra sbadigliò per lasciarli passare e poi si serrò di nuovo dietro di loro.
L’uomo stava sempre dietro a lei e all’uomo che teneva la corda. Poi venivano altre tre o quattro persone.
I campi erano argentati dalla rugiada. La montagna era una macchia scura sullo sfondo pallido del cielo. Dagli alberi e dalle siepi, gli uccelli avevano preso a cantare sempre più forte.
Arrivarono sull’orlo del mondo e camminarono lungo di esso finché non giunsero in un punto dove il terreno era costituito unicamente di roccia e il bordo era molto stretto. Sulla roccia c’era una linea; lei la fissò.
«Lui può darle una spinta di incoraggiamento», disse l’uomo. «Poi lo sparviero può volare, tutto da solo.»
Le tolse la corda che aveva attorno al collo.
«Va’ avanti, e fermati sul ciglio», le ordinò l’uomo. Lei seguì la linea incisa sulla pietra, fino all’orlo. Sotto di lei, c’era soltanto il mare, e nient’altro. E davanti a lei c’era l’aria infinita.