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«Voglio camminare», ribatté il vecchio.

Da dietro l’angolo della casa era giunta intanto anche Therru che guardò con serietà Ogion e Tenar attraversare — fermandosi ogni cinque o sei passi per far riprendere fiato a Ogion — il prato incolto fra la casa e gli alberi che coprivano il fianco della montagna, dal ciglio del Precipizio fin quasi alla vetta. Il sole era caldo, ma l’aria era ancora fresca. Impiegarono molto tempo ad attraversare il prato. Il volto di Ogion era cinereo e le gambe gli tremavano come l’erba che li circondava, tuttavia i due giunsero infine ai piedi di un grosso, giovane faggio ai limiti della foresta, a pochi passi dall’inizio del sentiero che saliva alla cima del monte. Lì, Ogion si lasciò scivolare tra le radici dell’albero, e appoggiò la schiena al tronco. Per parecchi minuti non riuscì né a muoversi né a parlare; il cuore, che batteva forte e ogni tanto perdeva un colpo, lo faceva tremare tutto. Alla fine, il vecchio sussurrò, con un cenno d’assenso: «Va bene».

Therru li aveva seguiti a qualche passo di distanza. Tenar le si avvicinò e le disse qualche parola. Poi tornò da Ogion. «È andata a prendere una coperta», spiegò.

«Non ho freddo.»

«Be’, io sì.»

Nel dirlo, Tenar gli sorrise per un istante.

La bambina fece ritorno, trascinando dietro di sé una coperta di lana di capra. Sussurrò qualcosa a Tenar e corse via.

«Erica si farà aiutare dalla bambina a mungere le capre, e baderà a lei», spiegò Tenar. «Io starò qui con te.»

«Non riesci mai a fare una cosa sola per volta», disse Ogion, con il filo di voce, debole e roco, che gli rimaneva.

«Sì, ne faccio sempre almeno due, e spesso anche di più», rispose Tenar. «Ma, come vedi, sono qui.»

Lui annuì.

Per un lungo periodo, il mago non parlò più: rimase appoggiato al tronco dell’albero tenendo chiusi gli occhi. Osservandolo in viso, Tenar lo vide lentamente trascolorare, a mano a mano che il sole si avvicinava al tramonto.

Poi Ogion aprì gli occhi e guardò il cielo, verso occidente, attraverso uno spiraglio lasciato libero dalle chiome degli alberi. Pareva intento a osservare qualcosa, un movimento o un’azione visibile soltanto a lui, in quel lontano spazio luminoso e dorato. A un certo punto sussurrò, con esitazione: «Il drago…»

Il sole era tramontato, il vento cessava.

Ogion guardò Tenar.

«È finita», bisbigliò, con gioia. «Tutto è cambiato!… Cambiato, Tenar! Aspettalo… aspettalo qui…» Fu scosso da un grande fremito, che lo agitò come un ramo preso dal turbine. Ansimò. Chiuse gli occhi e poi li spalancò di scatto, fissando qualcosa dietro di lei. Posò la mano su quella di Tenar, e la donna si chinò su di lui; Ogion le disse il proprio nome vero, perché fosse noto a tutti dopo la sua morte.

Le strinse di nuovo la mano, chiuse gli occhi e riprese la sua lotta per respirare, finché dovette soccombere. Allora si abbandonò contro il tronco dell’albero come se anch’egli fosse una delle sue radici, mentre le prime stelle si affacciavano tra le foglie degli alberi.

Tenar rimase seduta vicino al morto finché non scese la notte. Poi, dalla casa, vide avvicinarsi una lanterna che tremolava come una lucciola. Tenar aveva steso la coperta sulle gambe di tutt’e due, ma la mano con cui stringeva quella di Ogion le era diventata fredda, come se stringesse una pietra. Accostò un’ultima volta la fronte alla mano del mago, poi si alzò, e si accorse di essere intirizzita e di avere la testa che le girava: il suo stesso corpo le parve quello di un’estranea. Lasciò il faggio e raggiunse coloro che venivano con la luce, per accoglierli e per guidarli.

Quella notte i vicini vegliarono Ogion, e il vecchio mago non li cacciò più via.

Il castello del Signore di Re Albi sorgeva su una grande roccia che sporgeva dal fianco della montagna, al di sopra del Grande Precipizio. Quella mattina presto, molto prima che il sole fosse salito in cima al monte, arrivò, dopo essere passato dal villaggio, il mago al servizio di quel signore. Poco più tardi, dalla stradina ripida che veniva da Porto Gont arrivò, tutto trafelato, anche un altro mago, che era partito durante la notte. Era giunta loro notizia che Ogion era in punto di morte, o forse il loro Potere era tale che venivano a sapere immediatamente della morte di un grande mago.

Nel villaggio di Re Albi non c’era uno stregone: solo il mago e una strega che si occupava dei lavori di poco conto, come trovare gli oggetti, guarire le ferite e saldare le fratture: per cose come queste, la gente preferiva non disturbare il mago. Zia Muschio era una donna severa, non sposata, al pari di molte altre streghe, e poco amante del sapone, con i capelli grigi legati in bizzarri nodi portafortuna, e gli occhi sempre rossi a causa del fumo delle sue erbe. Era stata lei ad arrivare con la lanterna, e con Tenar e gli altri aveva vegliato per tutta la notte la salma di Ogion. Aveva acceso una candela di cera, dentro una tazza di vetro, lì nella foresta, e aveva bruciato un olio dolciastro su un piattino di creta; aveva detto le parole rituali e fatto quel che si doveva fare in quei casi. Quando aveva dovuto toccare il corpo per prepararlo alla sepoltura, aveva guardato Tenar come per chiederle il permesso e poi aveva continuato il suo lavoro. Le streghe di villaggio si assumevano di solito il compito di «preparare alla loro nuova casa» — così dicevano — i morti, e spesso si occupavano anche della sepoltura vera e propria.

Quando giunsero il mago del castello (un giovanotto alto, con un bastone di pino dalle fasce d’argento) e quello di Porto Gont (un uomo corpulento di mezza età, con un corto bastone di tasso), Zia Muschio non alzò su di loro i suoi occhi rossi, ma abbassò lo sguardo, rivolse loro un inchino e si tirò indietro, raccattando i suoi talismani e le sue povere stregonerie.

Dopo aver preparato il corpo per la sepoltura — steso sul fianco sinistro e con le ginocchia piegate -, Zia Muschio gli aveva messo nel palmo della mano sinistra, rivolto verso l’alto, un piccolo portafortuna, avvolto in pelle di capra e legato con fili di vari colori. Il mago di Re Albi tuttavia lo gettò lontano con la punta del bastone.

«Hanno già scavato la fossa?» chiese il mago di Porto Gont.

«Sì», rispose il mago di Re Albi. «Nel cimitero del mio signore», e indicò il castello sul monte.

«Capisco», disse Porto Gont. «Speravo che il nostro mago potesse essere sepolto con tutti gli onori nella città che ha salvato dal terremoto.»

«Il mio signore desidera avere questo privilegio», replicò Re Albi.

«Però, pensavamo che…» cominciò Porto Gont, tuttavia s’interruppe subito: non aveva intenzione di discutere, ma non voleva neppure arrendersi alle pretese di quel giovanotto che parlava come se tutto gli fosse dovuto. Guardò il morto. «Dovrà essere sepolto senza nome», disse con amarezza. «Ho camminato per tutta la notte, ma sono arrivato troppo tardi. Una grande perdita, resa ancor più grave dalla mancanza del nome!»

Il giovane mago non fece commenti.

«Il suo vero nome era Aihal», dichiarò Tenar. «Ha chiesto di essere sepolto nel punto dove riposa adesso.»

Entrambi i maghi si voltarono a guardarla. Il giovane, vedendo davanti a sé una comune donna di mezza età, chiaramente venuta da uno dei villaggi vicini, si girò dall’altra parte. L’uomo di Porto Gont, invece, la studiò per un momento e chiese: «Chi siete?»

«Mi chiamo Goha, vedova di Selce», rispose lei, «e forse dovreste sapere chi sono, ma non spetta a me dirvelo.»

A queste parole, il mago di Re Albi la ritenne degna di un’occhiata minacciosa. «Attenta, donna, a come parli a due maghi!»

«Un momento, un momento», disse Porto Gont, alzando la mano per calmare Re Albi. Osservò meglio Tenar. «Voi eravate… Eravate la sua pupilla, un tempo?»

«Ed ero sua amica», affermò Tenar. Poi girò la testa dall’altra parte e tacque. Si era accorta di avere parlato in tono irato. Fissò il suo amico: un cadavere pronto per essere seppellito, senza memoria e senza vita. Mentre tutti gli altri stavano sopra di lui, vivi e potenti, animati non da amicizia, ma solo da disprezzo, rivalità, collera.