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Jules Verne

L’Isola Misteriosa

Titolo originale dell’opera:

L’ILE MISTÉRIEUSE

Romanzo(1875)

Traduzione integrale dal francese di Lorenza Ester Aghito

Printed in Italy — 1964

U. Mursia editore S.p.A.

U. Mursia editore — Milano

PRESENTAZIONE

Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith.

Il punto di partenza della grande avventura è Richmond, una cittadina americana degli Stati del Sud, durante il periodo della guerra di Secessione. Di qui, realizzando un audacissimo progetto, cinque prigionieri dei sudisti riescono ad evadere, servendosi di un pallone aerostatico; giunto sull’oceano, l’aerostato viene investito da una tromba marina e i cinque vengono sbattuti su un’isola sconosciuta. Sono soli, senza mezzi, esposti a tutti i pericoli. Come Robinson. Ma li guida un ingegnere, un tecnico, il quale, sfruttando le proprie conoscenze scientifiche, li aiuta a rifarsi una vita il più possibile confortevole, fabbricando addirittura la nitroglicerina e costruendo un telegrafo elettrico…

Eppure, su quell’isola selvaggia, che i naufraghi hanno ormai battezzato con il nome di Lincoln, avvengono alcuni fatti misteriosi, quasi che una invisibile «presenza» sorvegliasse momento per momento la vita di quegli infelici. E il primo segno inquietante è la scoperta in mare di una bottiglia con un messaggio. «Sull’isola Tabor, a qualche centinaia di miglia» dice il messaggio «c’è un altro naufrago…»

È a questo punto che la vicenda si salda ai due libri precedenti, I figli del capitano Grant e Ventimila leghe sotto i mari, i quali, insieme con questo, compongono una specie di «trilogia del mare».

Quel naufrago, ch’essi trovano sull’isola Tabor, è Ayrton, il pericoloso evaso che lord Glenarvan — come appunto si narra ne I figli del capitano Grant — ha abbandonato sull’isola, per punirlo d’aver tentato d’impossessarsi del Duncan. I nostri protagonisti lo trovano ormai abbrutito e ridotto allo stato selvaggio e durano non poca fatica per ricondurlo a condizioni di vita umana e civile. Ma c’è un’altra sorpresa, ancora più strana e affascinante. In un luogo remoto dell’isola, in cupe grotte basaltiche dove il mare si insinua spumeggiando, essi scorgono la scura sagoma del Nautilus e fanno conoscenza con il capitano Nemo. Così, finalmente, sono in grado di dare un corpo a quella «presenza» benefica e invisibile che avevano più volte avvertita sull’isola. Il capitano Nemo, l’enigmatico protagonista di Ventimila leghe sotto i mari, è ormai allo stremo delle forze. Essi ne ascoltano in silenzio le ultime volontà, assistono alla sua morte, quindi lo seppelliscono, com’è suo desiderio, nel mostro d’acciaio, il Nautilus, che lentamente sprofonda negli abissi.

Siamo ormai alle ultime battute del grande e complesso romanzo. Il Duncan, che appare nelle prime pagine de I figli del capitano Grant, si profila veloce all’orizzonte e riporta finalmente in patria, dopo lunghi anni di esilio, i poveri naufraghi.

Apparso la prima volta nel 1875, il romanzo conclude la «trilogia del mare», spiegando motivi e personaggi che nei due precedenti volumi erano rimasti per così dire allo stato di abbozzo, in un drammatico e contrastato chiaroscuro. E tale spiegazione non ha soltanto valore sul piano della vicenda romanzesca, ma, assai più a fondo, acquista valore sul piano psicologico e morale. Si direbbe che Verne abbia voluto qui dissipare ogni ombra sui protagonisti più enigmatici dell’intera vicenda. Primo fra tutti il capitano Nemo, che nelle pagine finali di questo libro si riscatta del proprio operato. Ormai vecchio, prossimo alla morte, egli rievoca la sua tragica storia e vi dà un senso. E persino dopo la sua morte, i naufraghi beneficiano di un suo ultimo gesto di pietà e di bontà. Si deve infatti a lui se il Duncan riesce a rintracciarli e a condurli in salvo.

L’altro personaggio che si illumina di una luce nuova e positiva è Ayrton. L’avevamo conosciuto come un pericoloso avventuriero, capace di tutto, senza scrupoli. Giustamente lord Glenarvan si era disfatto di lui, abbandonandolo tutto solo sull’isolotto sperduto nell’oceano. Qui lo incontriamo come un essere abbrutito dall’isolamento, un essere che ha persino perduto la coscienza della propria umanità. Ma avviene il miracolo. A contatto con i naufraghi, la sua coscienza affiora lentamente dalla barbarie ed egli ritorna uomo attraverso il rimorso. Le lacrime che riempiono i suoi occhi, al ricordo del male che ha commesso, lo restituiscono, puro e redento, alla società dei vivi.

Questo romanzo non è solo il nuovo «Robinson» che vede il trionfo della scienza, ma è anche il nuovo «Robinson» che vede il trionfo della morale, secondo un concetto ottimistico in cui scienza e morale non sono che due momenti diversi di un’unica realtà: la realtà dell’uomo. Un romanzo, dunque, non solo grandioso e avvincente per la sua trama avventurosa, ma anche conclusivo e significativo per gli alti ideali che lo ispirano e che gettano una luce tutta particolare sullo scrittore e sulla sua epoca.

Sarebbe assai curioso e interessante, a questo proposito, prendere in considerazione anche due altri romanzi verniani che, pur non avendo nulla a che fare con la già citata «trilogia del mare», sono in diretto contatto con il fecondo filone dei Robinson. Ricordiamo prima di tutto La scuola dei Robinson (1882) dove sull’avventura prevale insolitamente lo spirito umoristico e grottesco di Verne; ma in modo del tutto particolare ricordiamo Seconda patria (1900), l’ideale continuazione de Il Robinson svizzero di Johann David Wyss, passato alla storia anche per il film che «prendendosi non poche libertà» ne trasse quel mago dei cartoni animati che fu Walt Disney, Robinson nell’isola dei corsari.

Senza dubbio L’isola misteriosa costituisce di per sé un modello unico, del tutto autonomo, superiore ad ogni esempio precedente; tuttavia, pur nella sua singolare bellezza, appartiene anch’essa alla «famiglia» dei Robinson, alla famiglia di quegli avventurosi pionieri che dalla solitudine hanno tratto vigore e speranza per un mondo nuovo.

JULES VERNE nacque a Nantes, l’8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d’avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent’anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell’epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d’opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un’occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l’editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone.