In una specie di mulinello, prodotto da un’acuta sporgenza della riva che rompeva la corrente, il marinaio e il ragazzo collocarono dei pezzi di legno abbastanza grossi, legati insieme per mezzo di liane secche. Formarono così una specie di zattera sulla quale fu poi gradatamente ammucchiata tutta la raccolta, cioè il carico di venti uomini almeno. In un’ora il lavoro fu terminato, e il traino, ormeggiato alla riva, dovette attendere l’invertirsi della marea.
V’era qualche ora da occupare e, di comune accordo, Pencroff e Harbert decisero di raggiungere l’altipiano, per esplorare quei luoghi da un più vasto orizzonte.
Esattamente duecento passi prima del gomito formato dal fiume, la muraglia, terminante con uno scoscendimento di rocce, veniva a morire in dolce pendio sul margine della foresta. Era come una scala naturale. Harbert e il marinaio cominciarono a salirla. Grazie al vigore dei loro garretti, essi raggiunsero la cresta in pochi minuti e vennero a porsi sull’angolo ch’essa faceva con l’imboccatura del fiume.
Arrivando lassù il loro primo sguardo fu per quell’oceano che avevano da poco attraversato in così terribili condizioni! Osservarono con emozione tutta quella parte della costa nord, sulla quale era avvenuta la sciagura. Là Cyrus Smith era scomparso. Cercarono con lo sguardo se qualche rottame del loro pallone, al quale un uomo avesse potuto aggrapparsi, galleggiasse ancora. Nulla! Il mare non era che un vasto deserto d’acqua. Quanto alla costa, anch’essa era deserta. Non vi si vedevano né il giornalista né Nab; ma era probabile che in quel momento fossero a una distanza tale da non poter essere scorti.
«Qualche cosa mi dice,» esclamò Harbert «che un uomo così energico come il signor Cyrus non può essersi lasciato sopraffare dalle onde come il primo venuto. Egli deve aver raggiunto sicuramente la riva. Non ti pare, Pencroff?»
Il marinaio scrollò tristemente il capo. Egli non sperava più di rivedere Cyrus Smith; ma, volendo lasciare qualche speranza ad Harbert:
«Certo, certo,» disse «il nostro ingegnere è uomo capace di trarsi d’impaccio là dove ogni altro soccomberebbe!…»
Intanto, egli osservava la costa con estrema attenzione. Sotto i suoi occhi si stendeva la spiaggia di sabbia, limitata, sulla destra dell’imboccatura, da file di scogli. Queste rocce, ancora emergenti dall’acqua, assomigliavano a gruppi di animali anfibi adagiati nella risacca. Oltre la fila di scogli, il mare scintillava sotto i raggi del sole. A sud una punta sottile chiudeva l’orizzonte, e non si poteva capire se la terra si prolungasse in quella direzione, o se si orientasse a sudest e a sudovest, il che avrebbe fatto di quella costa una specie di penisola allungata. All’estremità settentrionale della baia, la forma del litorale proseguiva spingendosi a grande distanza, e secondo una linea più arrotondata. Là, la riva era più bassa, piatta, senza scogli, con larghi banchi di sabbia, che il riflusso lasciava scoperti.
Pencroff e Harbert si volsero allora verso ovest. Il loro sguardo fu dapprima fermato dalla montagna con la cima nevosa, che si drizzava a una distanza di sei o sette miglia. Dalle prime pendici di essa fino a due miglia dalla costa, si stendevano vaste masse boscose, chiazzate da grandi macchie verdi, dovute alla presenza di alberi a fogliame perenne. Poi, dall’estremo limite di quella foresta sino alla costa, verdeggiava una larga spianata, sparsa di gruppi d’alberi capricciosamente distribuiti. Sulla sinistra, si vedevano a tratti sfavillare, attraverso qualche radura, le acque del fiumicello, e sembrava che il suo corso assai sinuoso lo riconducesse verso i contrafforti della montagna, fra i quali esso doveva avere la sua sorgente. Nel punto in cui il marinaio aveva lasciato il suo traino di legna, il fiume stesso cominciava a scorrere tra le due alte muraglie di granito; ma, se sulla sua sponda sinistra le pareti erano ritte e scoscese, sulla sponda destra, invece, si abbassavano a poco a poco, gli enormi massi si mutavano in rocce isolate, le rocce in ciottoloni, i ciottoloni in sassi più piccoli, fino all’estremità della punta.
«Siamo su un’isola?» mormorò il marinaio.
«A ogni modo, essa sembrerebbe abbastanza vasta!» rispose il giovanetto.
«Un’isola, per vasta che sia, è sempre un’isola!» disse Pencroff.
Ma questo importante problema non poteva ancora essere risolto. Bisognava rimandarne la soluzione a un altro momento. Quanto alla terra di per se stessa, isola o continente che fosse, sembrava fertile, gradevole nei suoi aspetti, varia nei prodotti.
«Tutto questo è ottimo,» fece osservare Pencroff «e, nella nostra disgrazia, bisogna ringraziarne la Provvidenza.»
«Dio sia dunque lodato!» rispose Harbert, con il cuore pieno di riconoscenza per l’Autore di tutte le cose.
Lungamente Pencroff e Harbert osservarono quella contrada sulla quale il loro destino li aveva gettati, ma era difficile immaginare, dopo un’ispezione così sommaria, quanto riserbava loro l’avvenire.
Poi ritornarono, seguendo la cresta meridionale dell’altipiano di granito, formata da un lungo festone di rocce capricciose, che prendevano le forme più bizzarre. Là vivevano alcune centinaia d’uccelli, annidati nei buchi della pietra. Harbert, saltando sulle rocce, fece volar via un intero stormo di volatili.
«Ah!» gridò «quelli non sono né gabbiani né procellarie!»
«Che uccelli sono?» chiese Pencroff. «Si direbbero piccioni!»
«Infatti, ma sono piccioni selvatici, o piccioni di roccia» rispose Harbert. «Li riconosco dalla doppia fascia nera dell’ala, dal dorso bianco e dalle piume azzurrocenere. Ora, se il piccione di roccia è buono da mangiare, le sue uova devono essere eccellenti, e, per poche che ne abbiano lasciate nei nidi…»
«Non lasceremo loro il tempo di schiudersi, se non sotto forma di frittata» disse gaiamente Pencroff.
«Ma dove la farai la frittata?» domandò Harbert. «Nel cappello?»
«Beh!» rispose il marinaio «non sono uno stregone per poter fare questo. Ci accontenteremo dunque delle uova al guscio, ragazzo mio, e io m’incarico di sbarazzarti delle più sode!»
Pencroff e il ragazzo esaminarono attentamente le anfrattuosità del granito e in certe cavità trovarono, infatti, delle uova. Ne furono raccolte alcune dozzine, che vennero poi messe nel fazzoletto del marinaio, e avvicinandosi il momento in cui il mare doveva seguire la corrente favorevole ai loro disegni, Harbert e Pencroff cominciarono a ridiscendere verso il corso d’acqua.
Quando giunsero al gomito del fiume, era la una dopo mezzogiorno. La corrente già s’invertiva. Bisognava, quindi, approfittare del riflusso per condurre il traino di legna all’imboccatura del fiume. Pencroff non aveva intenzione di lasciar andare il traino alla deriva, senza direzione, e nemmeno intendeva imbarcarvisi per guidarlo. Ma un marinaio non è mai imbarazzato quando si tratta di cavi o di cordame, e Pencroff intrecciò rapidamente, con liane secche, una corda lunga parecchie braccia. Questo cavo vegetale fu attaccato alla parte posteriore della zattera e il marinaio lo tenne in mano, mentre Harbert, spingendo il convoglio con una lunga pertica, lo manteneva nella corrente.
Il procedimento riuscì a meraviglia. L’enorme carico di legna, che il marinaio tratteneva camminando lungo la riva, seguì il corso dell’acqua. La riva era molto a picco, non v’era da temere che il traino si incagliasse, e, prima delle due del pomeriggio, era arrivato alla foce del fiume, a pochi passi dai Camini.
CAPITOLO V
ADATTAMENTO DEI CAMINI «L’IMPORTANTE PROBLEMA DEL FUOCO» LA SCATOLA DI FIAMMIFERI «RICERCHE SULLA SPIAGGIA» RITORNO DEL GIORNALISTA E DI NAB «UN SOLO FIAMMIFERO!» IL FOCOLARE SFAVILLANTE «LA PRIMA CENA» LA PRIMA NOTTE A TERRA