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Il giornalista fece il racconto delle ricerche tentate per ritrovare Cyrus Smith. Nab e lui avevano percorso la costa lungo un tratto di più di otto miglia e si erano spinti assai più in là del punto dove era avvenuta la penultima caduta del pallone, seguita dalla scomparsa dell’ingegnere e di Top. L’arenile era deserto. Nessuna traccia, nessuna impronta. Non un ciottolo smosso di fresco, non un indizio sulla sabbia, non un’impronta umana su tutta quella parte del litorale. Evidentemente quella parte di costa non era frequentata da nessuno. Il mare era deserto come la spiaggia, ed era là, a qualche centinaio di piedi dalla costa, che l’ingegnere doveva aver trovato la sua tomba.

In quel momento Nab si alzò e con una voce che diceva quanto resistesse in lui la speranza:

«No!» gridò «no! Non è morto! No! non può essere! Lui! Ma no, via! Io, un altro qualunque, sarebbe possibile! ma lui! mai! È uomo capace di trarsi da qualunque impaccio!»

Poi, le forze lo abbandonarono.

«Ah! Non ne posso più!» mormorò. Harbert corse da lui.

«Nab!» disse il giovinetto «lo ritroveremo! Dio ce lo renderà. Ma, intanto, voi avete fame! Mangiate, mangiate qualche cosa, vi prego!»

E così dicendo, offriva al povero negro una manciata di frutti di mare, magro e insufficiente nutrimento.

Nab non aveva mangiato da molte ore, ma rifiutò. Senza il suo padrone, Nab non poteva e non voleva più vivere!

Gedeon Spilett divorò quei molluschi; poi si coricò sulla sabbia ai piedi di una roccia. Era estenuato, ma calmo.

Allora Harbert gli si avvicinò, e prendendogli la mano:

«Signore,» disse «abbiamo scoperto un rifugio dove starete meglio di qui. La notte sopraggiunge. Venite a riposarvi. Domani vedremo!…»

Il cronista si alzò e, guidato dal ragazzo, si diresse verso i Camini. In quel momento, Pencroff si avvicinò a lui, e, con il tono più naturale, gli chiese se, per caso, avesse un fiammifero.

Il giornalista si fermò, cercò nelle tasche, non vi trovò nulla e disse:

«Ne avevo, ma devo aver buttato via tutto…»

Il marinaio chiamò allora Nab; gli fece la medesima domanda, ricevendone la medesima risposta.

«Maledizione!» esclamò, non potendo trattenere questa parola. Spilett la sentì e, andando verso Pencroff:

«Nemmeno un fiammifero?» disse.

«Nemmeno uno, e quindi niente fuoco!»

«Ah!» esclamò Nab «se il mio padrone fosse qui, lui si che saprebbe che cosa fare!»

I quattro naufraghi rimasero immobili e si guardarono, non senza inquietudine. Harbert ruppe per primo il silenzio, dicendo:

«Signor Spilett, siete fumatore, avete sempre fiammiferi indosso. Forse non avete cercato bene. Cercate ancora! Un solo fiammifero ci basterà!»

Il cronista frugò di nuovo nelle tasche dei pantaloni, del panciotto, del pastrano e, alla fine, con gran gioia di Pencroff e con sua grande sorpresa, scoperse un pezzettino di legno imprigionato nella fodera del panciotto. Le sue dita avevano afferrato il pezzettino di legno attraverso la stoffa, ma non potevano estrarlo. Siccome doveva proprio essere un fiammifero, e uno solo, si trattava di non sciuparne il fosforo.

«Volete lasciar fare a me?» disse il ragazzo.

E molto destramente, senza romperlo, egli riuscì a estrarre il piccolo pezzo di legno, meschina e preziosa festuca, che, per quella povera gente, aveva così grande importanza! Era intatto.

«Un fiammifero!» gridò Pencroff. «Ah! È come se ne avessimo un carico intero!»

Prese il fiammifero, e seguito dai suoi compagni, ritornò ai Camini.

Quel minuscolo pezzo di legno, che da noi si usa con tanta prodigalità e indifferenza, e che non ha nessun valore, qui doveva essere adoperato con estrema precauzione. Il marinaio si assicurò che fosse ben secco, poi:

«Ci vorrebbe della carta» disse.

«Eccola» rispose Gedeon Spilett, strappando, dopo qualche esitazione, un foglio dal suo taccuino.

Pencroff prese il pezzo di carta che il giornalista gli porgeva, e s’accoccolò davanti al focolare. Alcune manciate d’erba, delle foglie e dei muschi secchi furono messi sotto le fascine e il tutto disposto in modo che l’aria potesse circolare agevolmente e infiammare con rapidità la legna secca.

Allora, Pencroff piegò il pezzo di carta a forma d’imbuto, come fanno i fumatori di pipa quando tira il vento, poi l’introdusse tra i muschi, prese un sasso leggermente ruvido, lo asciugò con cura e, non senza che il cuore gli battesse, vi strofinò dolcemente il fiammifero, trattenendo il respiro.

Il primo sfregamento non produsse alcun effetto. Pencroff non aveva premuto abbastanza energicamente temendo di guastare il fosforo.

«No, non posso,» disse «la mia mano trema. Sprecherei il fiammifero… Non posso… Non voglio!» e, alzandosi, incaricò Harbert di sostituirlo.

Il giovinetto non era mai stato certamente tanto impressionato in vita sua. Il cuore gli batteva forte. Prometeo, quando involò il fuoco del cielo, non doveva essere più commosso! Ma non esitò, e fregò rapidamente il sasso. Un piccolo crepitio si fece sentire e una leggera fiamma bluastra scaturì, producendo un fumo acre. Harbert girò dolcemente il fiammifero, in modo da alimentarne la fiammella, poi lo insinuò nell’imbuto di carta. La carta prese fuoco in un attimo e i muschi bruciarono subito.

Alcuni istanti dopo, il legno secco scricchiolava, e un’allegra fiamma, attivata dal vigoroso soffio del marinaio, si sviluppava in mezzo all’oscurità.

«Finalmente,» esclamò Pencroff rialzandosi «non sono mai stato tanto commosso in vita mia!»

Certo il fuoco s’accendeva assai bene sul focolare di pietre piatte. Il fumo saliva facilmente per lo stretto condotto, il camino tirava, e un piacevole calore non tardò a diffondersi.

Ora bisognava stare attenti a non lasciar spegnere il fuoco e a conservare sempre qualche brace sotto la cenere. Ma era solo questione di diligenza e di attenzione, giacché la legna non mancava, e la provvista poteva sempre essere rinnovata in tempo utile.

Pencroff pensò prima di tutto a utilizzare il focolare, preparando una cena più nutriente che un piatto di litodomi. Due dozzine d’uova apparvero, recate da Harbert. Il giornalista, appoggiato in un angolo, guardava quei preparativi senza dir nulla. Il suo spirito era occupato da un triplice pensiero. Cyrus vive ancora? Se vive, dove può essere? Se è sopravvissuto alla caduta, come spiegare che non abbia trovato il mezzo di far conoscere la sua esistenza? Quanto a Nab, camminava avanti e indietro sull’arenile. Ormai era un corpo senz’anima.

Pencroff, che conosceva cinquantadue modi di cucinare le uova, non aveva possibilità di scelta in quel momento. Dovette accontentarsi di introdurle nelle ceneri calde e di cuocerle a fuoco lento.

In pochi minuti la cottura fu compiuta, e il marinaio invitò il giornalista a prendere la sua porzione. Fu il primo pasto dei naufraghi su quella terra sconosciuta. Le uova sode erano eccellenti e, poiché l’uovo contiene tutti gli elementi indispensabili alla nutrizione dell’uomo, quella povera gente se ne trovò molto bene e si sentì riconfortata.

Ah! Se uno di loro non fosse mancato a quel pasto! Se i cinque prigionieri fuggiti da Richmond fossero stati tutti là, sotto quelle rocce ammonticchiate, davanti a quel fuoco scoppiettante e chiaro, su quella sabbia asciutta, forse non avrebbero avuto che pensieri di ringraziamento da rivolgere al Cielo! Ma il più geniale, il più dotto, quello che era il loro capo incontestato, Cyrus Smith, ahimè! era assente e il suo corpo non aveva neppure potuto ricevere sepoltura!

Così trascorse quella giornata del 25 marzo. La notte era giunta. Si udiva fuori il vento fischiare e la risacca monotona battere la costa. I sassi, gettati lontano e poi ripresi dalle onde, rotolavano con un fracasso assordante.

Il giornalista si era ritirato in fondo a un oscuro corridoio, dopo aver annotato sommariamente gli incidenti di quel giorno: la prima apparizione di quella nuova terra, la scomparsa dell’ingegnere, l’esplorazione della costa, l’incidente dei fiammiferi, ecc.; e, abbattuto dalla fatica, riuscì a trovare un po’ di riposo nel sonno.