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Inutile aggiungere che la foresta, come pure la costa già percorsa, era vergine di ogni impronta umana. Pencroff vi notò solo tracce di quadrupedi, piste fresche d’animali, di cui non poté riconoscere la specie. Con molta probabilità — e questa fu pure l’opinione di Harbert — alcune erano state lasciate da animali feroci formidabili, con i quali vi sarebbe stato, senza dubbio, poco da scherzare; ma non il segno di un’ascia su un tronco d’albero, né le ceneri di un fuoco spento, né l’orma di un passo umano; della qual cosa, del resto, si doveva forse esser lieti, poiché su quella terra, in pieno Pacifico, la presenza dell’uomo sarebbe stata probabilmente più temibile che desiderabile.

Harbert e Pencroff, parlando appena, poiché le difficoltà del cammino erano grandi, avanzavano lentissimamente, e, dopo un’ora di marcia, avevano appena percorso un miglio. Sino allora la caccia non era stata fruttuosa. Però, alcuni uccelli cantavano e svolazzavano sotto le fronde, ma si mostravano molto selvatici, come se l’uomo avesse loro istintivamente ispirato una giusta paura. Fra altri volatili, Harbert segnalò, in una parte paludosa della foresta, un uccello dal becco appuntito e lungo, che assomigliava anatomicamente al martin pescatore. Ma si distingueva da quest’ultimo per un violento colore delle penne, che avevano uno splendore metallico.

«Dev’essere uno jacamar» disse Harbert, tentando di avvicinare l’animale.

«Sarebbe proprio il caso di assaggiare un po’ di jacamar,» rispose il marinaio «se quest’uccello fosse disposto a lasciarsi arrostire!»

In quel momento un sasso, accortamente e vigorosamente lanciato dal giovanetto, andò a colpire il volatile all’attaccatura dell’ala; ma il colpo non fu sufficiente, perché l’animale fuggì con tutta la velocità delle sue gambe e scomparve in un baleno.

«Ho fallito il colpo!» esclamò Harbert.

«Eh, no, ragazzo mio!» rispose il marinaio. «Il colpo era bene aggiustato, mentre più di un cacciatore avrebbe mancato l’uccello! Andiamo! non indispettirti! Lo prenderemo un altro giorno!»

L’esplorazione continuò. Via via che i cacciatori avanzavano, gli alberi, più distanziati fra loro, diventavano magnifici; nessuno però produceva frutti commestibili. Pencroff cercava invano qualcuno di quei preziosi palmizi che si prestano a tanti usi della vita domestica, e la cui presenza è stata segnalata fino al quarantesimo parallelo nell’emisfero boreale e solo fino al trentacinquesimo nell’emisfero australe. Ma quella foresta si componeva solo di conifere, come i deodara, già riconosciuti da Harbert, i pini Douglas, simili a quelli che crescono sulla costa nordovest dell’America, e magnifici abeti, di circa centocinquanta piedi di altezza.

Improvvisamente uno stormo di uccelli di piccola corporatura e di penne leggiadre, dalla coda lunga e cangiante, si sparpagliarono tra i rami, seminando le loro piume, debolmente attaccate, coprendo il suolo come di una leggera peluria. Harbert raccolse qualcuna di quelle piume e, dopo averle esaminate:

«Sono curucù» disse.

«Preferirei una gallina faraona o un gallo di montagna,» rispose Pencroff; «ma, insomma, sono buoni da mangiare?»

«Sono buoni da mangiare, e anzi la loro carne è delicatissima» riprese Harbert. «D’altronde, è facile avvicinarli e ucciderli a bastonate.»

Il marinaio e il ragazzo insinuandosi fra le erbe giunsero ai piedi di un albero, dai rami bassi coperti di quegli uccelletti. I curucù aspettavano al passaggio gli insetti che servono loro di alimento. Si vedevano le loro zampe rivestite di piume stringere forte i rami novelli che servivano loro come punti d’appoggio.

I cacciatori allora si raddrizzarono e, manovrando i loro bastoni come falci, abbatterono intere file di curucù, che non pensavano affatto a fuggirsene lasciandosi scioccamente atterrare. Già un centinaio di essi erano sparsi al suolo, quando gli altri si decisero a fuggire.

«Bene!» disse Pencroff. «Questa è selvaggina perfettamente degna di cacciatori come noi! La si prenderebbe con le mani!»

Il marinaio infilò i curucù, come allodole, su una bacchetta flessibile, e l’esplorazione continuò. Fu notato che il corso d’acqua girava leggermente, in modo da formare una svolta verso il sud, ma questo gomito non doveva prolungarsi, giacché il fiume doveva avere la sorgente nella montagna ed essere alimentato dallo scioglimento delle nevi, che coprivano i fianchi del cono centrale.

Lo scopo principale dell’escursione era, come si sa, di procurare agli ospiti dei Camini la più grande quantità possibile di selvaggina. Non si poteva dire che lo scopo fosse già stato raggiunto; per cui il marinaio proseguiva attivamente le ricerche e imprecava quando qualche animale, di cui egli non faceva nemmeno in tempo a distinguere la specie, fuggiva tra le erbe alte. Se almeno avesse avuto Top! Ma Top era sparito contemporaneamente al suo padrone e probabilmente perito con lui!

Verso le tre del pomeriggio altri stormi di uccelli furono intravisti attraverso certi alberi, di cui beccavano le bacche aromatiche, come quelle dei ginepri. D’improvviso, un vero squillo di tromba risuonò nella foresta. Quella strana fanfara era prodotta da una specie di gallinacei, che negli Stati Uniti si chiamano tetraoni. Poco dopo se ne vide qualche coppia, dalle piume miste di fulvo e di bruno e con la coda scura. Harbert riconobbe i maschi dai due ciuffi aguzzi, formati dalle penne rialzate del collo. Pencroff stimò indispensabile impadronirsi di uno di quei gallinacei grossi come una gallina e dalla carne che sta alla pari con quella della starna; ma era difficile, perché non si lasciavano avvicinare. Dopo parecchi tentativi infruttuosi, che non ebbero altro risultato che di spaventare i tetraoni, il marinaio disse al ragazzo:

«Poiché non si può ucciderli a volo, bisogna tentare di prenderli con la lenza.»

«Come i carpioni?» esclamò Harbert, molto sorpreso della proposta.

«Come i carpioni» rispose seriamente il marinaio.

Pencroff aveva trovato fra le erbe una mezza dozzina di nidi di tetraoni contenenti ciascuno due o tre uova. Egli ebbe gran cura di non toccare quei nidi, ai quali i proprietari dovevano inevitabilmente ritornare. Attorno a essi il marinaio pensò di tendere le sue lenze, e non lenze a cappio, ma vere e proprie lenze con l’amo. Condusse Harbert a una certa distanza dai nidi, e là preparò i suoi singolari congegni con la medesima cura che ci avrebbe messo un discepolo di Isaac Walton. (Nota: Celebre autore di un trattato sulla pesca con la lenza. Fine nota) Harbert seguiva quel lavoro con un interessamento facile a comprendersi, benché dubitasse della riuscita. Le lenze furono fatte di sottili liane, unite le une alle altre, e lunghe dai quindici ai venti piedi. Grosse e fortissime spine, a punte ricurve, tolte a un cespuglio di acacie nane, vennero legate alle estremità delle liane a guisa d’amo. Grossi vermi rossi, che strisciavano sul terreno, servirono da esca.

Fatto questo, Pencroff, passando fra le erbe e nascondendosi abilmente, andò a collocare l’estremità delle sue lenze, munite d’amo, presso i nidi dei tetraoni; poi, tenendo in mano l’altra estremità, si nascose con Harbert dietro un grosso albero. Entrambi si misero ad attendere pazientemente. Harbert, bisogna dirlo, non sperava molto nel successo dell’ingegnoso Pencroff.

Una mezz’ora abbondante trascorse, e, come il marinaio aveva preveduto, numerose coppie di tetraoni ritornarono ai loro nidi. Essi saltellavano, beccavano il suolo, non presentendo affatto la presenza dei cacciatori che, d’altronde, avevano avuto cura di appostarsi in modo da non esser visti dai gallinacei.