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CAPITOLO XV

IL RISVEGLIO DEL VULCANO «LA BELLA STAGIONE» RIPRESA DEI LAVORI «LA SERATA DEL 15 OTTOBRE» UN TELEGRAMMA «UNA DOMANDA» UNA RISPOSTA «PARTENZA PER IL RECINTO» L’AVVERTENZA «IL FILO SUPPLEMENTARE» LA COSTA DI BASALTO «CON L’ALTA MAREA» CON LA BASSA MAREA «LA CAVERNA» UNA LUCE ABBAGLIANTE

I COLONI, avvertiti dall’ingegnere, avevano sospeso i lavori e osservavano in silenzio la cima del monte Franklin.

Il vulcano s’era, dunque, risvegliato, e i vapori erano filtrati attraverso lo strato minerale accumulatosi nel fondo del cratere. Ma i fuochi sotterranei avrebbero provocato qualche violenta eruzione? Ecco un’eventualità impossibile a prevenirsi.

Tuttavia, anche ammettendo l’ipotesi di un’eruzione, era probabile che l’isola di Lincoln, nel suo insieme, non avesse a soffrirne. Le effusioni di materie vulcaniche non sono sempre disastrose. L’isola era già stata sottoposta a simili prove, come attestavano le colate di lava, che rigavano i pendii settentrionali della montagna. Inoltre, la forma del cratere e la sua bocca dovevano far si che le materie eruttate venissero proiettate in direzione opposta alle parti fertili dell’isola.

Ma il passato non vincolava, naturalmente, l’avvenire. Spesso, sulla cima dei vulcani, antichi crateri si chiudono, ma se ne aprono di nuovi. Il fatto si è prodotto in tutt’e due i mondi: sull’Etna, sul Popocatepetl, sull’Orizaba, e alla vigilia di un’eruzione, tutto si può temere. Bastava, insomma, un terremoto — fenomeno che accompagna talvolta le manifestazioni vulcaniche «perché la disposizione interna della montagna si modificasse e nuove vie si aprissero alle lave incandescenti.»

Cyrus Smith spiegò queste cose ai compagni, e senza esagerare la situazione, ne fece loro conoscere il pro ed il contro.

Dopo tutto, i coloni non potevano far nulla. GraniteHouse, salvo che un terremoto avesse fatto sobbalzare violentemente il suolo, non sembrava minacciata. Ma il recinto aveva tutto da temere, se qualche nuovo cratere si fosse aperto nelle pareti sud del monte Franklin.

Da quel giorno, i vapori non cessarono d’impennacchiare la cima della montagna, e venne anzi constatato che crescevano d’altezza e di densità, senza che però nessuna fiamma si mescolasse nelle loro dense volute. Il fenomeno si concentrava ancora nella parte inferiore del camino centrale.

Intanto, con le belle giornate, i lavori erano stati ripresi. Veniva affrettata al massimo la costruzione della nave e, per mezzo della cascata della spiaggia, Cyrus Smith riuscì a creare una segheria idraulica, che segò più rapidamente i tronchi d’albero in tavole e in travi. Il meccanismo di quest’apparecchio fu semplice, quanto quelli che funzionano nelle rustiche segherie della Norvegia.

Un primo movimento orizzontale da imprimere al pezzo di legno, un secondo movimento verticale da dare alla sega, era tutto quanto si trattava d’ottenere, e l’ingegnere vi riuscì per mezzo d’una ruota, di due cilindri e di pulegge opportunamente disposte.

Verso la fine di settembre, lo scheletro del bastimento, che doveva essere attrezzato a goletta, s’ergeva nel cantiere. L’ossatura era quasi interamente terminata, ed essendo le costole tenute insieme da un’invasatura provvisoria, già si potevano intuire le forme dell’imbarcazione. Quella goletta, dalla prua molto affinata, sveltissima nello stellato di poppa, sarebbe stata evidentemente adatta per una traversata abbastanza lunga, in caso di bisogno; ma l’adattamento del fasciame esterno, interno e del ponte esigeva ancora un tempo considerevole. Per fortuna, le parti in ferro del brigantino distrutto avevano potuto essere salvate dopo l’esplosione sottomarina. Dai corsi e dai braccioli spezzati Pencroff e Ayrton avevano strappato perni, caviglie e una gran quantità di chiodi di rame. Tanto di guadagnato per i fabbri, ma per i carpentieri fu un duro lavoro.

I lavori di costruzione dovettero essere interrotti durante una settimana per quelli della mietitura, della fienagione e per riporre i diversi raccolti, che abbondavano sull’altipiano di Bellavista. Terminati questi lavori, tutto il tempo fu poi consacrato al compimento della goletta.

Quando scendeva la notte, i lavoratori erano veramente esausti. Per non perdere tempo avevano modificato le ore dei pasti: pranzavano a mezzogiorno e cenavano solo quando la luce del giorno veniva loro a mancare. Risalivano allora a GraniteHouse e si coricavano subito.

Qualche volta, però, la conversazione, quando cadeva su qualche argomento interessante, ritardava alquanto l’ora del sonno. I coloni si lasciavano andare a parlar dell’avvenire e ragionavano volentieri dei cambiamenti, che avrebbe portati alla loro situazione un viaggio della goletta alle terre più vicine. Ma fra quei progetti dominava sempre il pensiero di un ulteriore ritorno all’isola di Lincoln. Mai avrebbero abbandonato quella colonia, fondata con tante fatiche e tanto successo e alla quale le comunicazioni con l’America avrebbero dato un nuovo efficace sviluppo.

Pencroff e Nab soprattutto speravano di finirvi i loro giorni.

«Harbert,» diceva il marinaio «non abbandonerai mai l’isola di Lincoln?»

«Mai, Pencroff, specialmente se tu decidi di restarci!»

«È già deciso, figliolo mio,» rispondeva Pencroff «ti aspetterò qui! Ritornerai, conducendo la tua sposa e i tuoi bimbi e io farò di essi degli uomini arditi e valorosi!»

«Siamo intesi» soggiungeva Harbert, ridendo e arrossendo.

«E voi, signor Cyrus,» riprendeva Pencroff entusiasta «sarete sempre il governatore dell’isola! Quanti abitanti potrà sfamare? Diecimila, almeno!»

Si parlava così, lasciando che Pencroff galoppasse con l’immaginazione e, passando da un argomento all’altro, il giornalista finiva per fondare un giornale: il «NewLincoln Herald»!

Così è il cuore umano. Il bisogno di compiere un’opera duratura, che gli sopravviva, è il segno della sua superiorità su tutto il resto del mondo vivente. Questo ha dato origine alla sua supremazia e la giustifica nel mondo intero.

Dopo di ciò, chissà se Jup e Top non avevano anch’essi il loro piccolo sogno avvenire?

Ayrton, silenzioso, diceva fra sé che avrebbe voluto rivedere lord Glenarvan e mostrarsi a tutti, riabilitato.

Una sera, il 15 ottobre, la conversazione, avviata così a formulare ipotesi, s’era protratta più del solito. Erano le nove di sera. Già lunghi sbadigli, mal dissimulati, segnavano l’ora del riposo, e Pencroff s’era appena avviato verso il suo letto, quando il campanello elettrico suonò improvvisamente nella sala.

Erano tutti là. Cyrus, Gedeon Spilett, Harbert, Ayrton, Pencroff, Nab. Nessuno dei coloni si trovava dunque al recinto.

Cyrus Smith si era alzato. I suoi compagni si guardavano, credendo di aver sentito male.

«Che cosa vuol dire ciò?» esclamò Nab. «È il diavolo che suona? Nessuno rispose.»

«Il tempo è burrascoso» fece notare Harbert. «L’influenza dell’elettricità non può?…»

Harbert non finì la frase. L’ingegnere, verso il quale erano rivolti tutti gli sguardi, crollava la testa negativamente.

«Aspettiamo» disse allora Gedeon Spilett. «Se è un segnale, chiunque sia che l’ha fatto, lo ripeterà.»

«Ma chi volete che sia?» esclamò Nab.

«Ma,» rispose Pencroff «quello che…»

La frase del marinaio fu troncata da un nuovo squillo della soneria elettrica.

Cyrus Smith si diresse verso l’apparecchio e lanciando la corrente attraverso il filo, rivolse questa domanda:

«Che cosa volete?». Alcuni istanti dopo, l’ago, muovendosi sul quadrante alfabetico, dava agli ospiti di GraniteHouse questa risposta: «Venite in fretta al recinto.»

«Finalmente» gridò Cyrus Smith.

Sì! Finalmente il mistero stava per svelarsi! Di fronte all’immenso interesse che li spingeva ora al recinto, ogni stanchezza dei coloni era scomparsa, ogni bisogno di riposo era cessato. Senza aver pronunciato una parola, in pochi istanti, avevano lasciato GraniteHouse e già si trovavano sul greto. Jup e Top soli erano rimasti. Si poteva fare a meno di loro.