La notte era nera. La luna, nuova proprio in quel giorno, era sparita contemporaneamente al sole. Come aveva fatto rilevare Harbert, grosse nubi tempestose formavano una volta bassa e pesante, che nascondeva ogni scintillio di stelle. Alcuni lampi di caldo, riflessi di un temporale lontano, illuminavano l’orizzonte.
Era possibile che, alcune ore dopo, la folgore tuonasse sull’isola. Era una notte minacciosa.
Ma l’oscurità, quantunque profonda, non poteva arrestare delle persone abituate a quella strada. Essi risalirono la riva sinistra del Mercy, raggiunsero l’altipiano, passarono il ponte del Creek Glicerina e avanzarono attraverso la foresta.
Camminavano di buon passo, in preda a un’emozione vivissima. Non v’era dubbio, essi stavano per aver finalmente la tanto cercata chiave dell’enigma, il nome di quell’essere misterioso, così profondamente entrato nella loro vita, così generoso nella sua azione e così potente! Per aver sempre potuto agire al momento opportuno, bisognava che quello sconosciuto si fosse interessato della loro esistenza, che ne conoscesse i minimi particolari, che udisse tutto quel che si diceva a GraniteHouse?
Ciascuno, sprofondato nelle proprie riflessioni, affrettava il passo. Sotto quella volta vegetale l’oscurità era così fonda, che non si vedeva nemmeno l’orlo della strada. Nessun rumore nella foresta. Quadrupedi e uccelli, impauriti dalla pesantezza dell’atmosfera, erano immobili e silenziosi. Nessun soffio agitava le foglie. Solamente il passo dei coloni risuonava nell’ombra, sul suolo indurito.
Durante il primo quarto d’ora di marcia il silenzio non fu interrotto che da questa osservazione di Pencroff:
«Avremmo dovuto prendere una lanterna. E da questa risposta dell’ingegnere:»
«Ne troveremo una al recinto.»
Cyrus Smith e i suoi compagni avevano lasciato GraniteHouse alle nove e dodici minuti. Alle nove e quarantasette minuti avevano superato una distanza di tre miglia, sulle cinque che separavano la foce del Mercy dallo steccato del recinto.
In quel momento, grandi lampi biancastri sbocciavano nell’oscurità del cielo, allargandosi poi sull’isola e disegnando in nero le frastagliature del fogliame. Quei lampi intensi abbagliavano e accecavano. Il temporale, evidentemente, non avrebbe tardato molto a scatenarsi. I lampi divennero a poco a poco più rapidi e più luminosi. Rombi lontani brontolavano sulle misteriose regioni del cielo. L’atmosfera era soffocante.
I coloni andavano, come se fossero stati spinti innanzi da qualche forza irresistibile.
Alle dieci e un quarto, un vivissimo lampo mostrava loro lo steccato del recinto, e non ne avevano àncora varcato la porta, che il tuono scoppiava con formidabile violenza.
Il recinto fu attraversato in un attimo e Cyrus Smith si trovò davanti all’abitazione.
Poteva darsi che la casa fosse occupata dallo sconosciuto, poiché appunto dalla casa stessa il telegramma era partito. Eppure, nessuna luce rischiarava la finestra.
L’ingegnere batté alla porta.
Nessuna risposta.
Cyrus Smith aperse la porta e i coloni entrarono nella camera, avvolta in una profonda oscurità.
Un colpo di acciarino di Nab accese la lanterna, che venne adoperata per esplorare ogni angolo della stanza.
Non c’era nessuno. Tutto si trovava come era stato lasciato.
«Siamo forse stati tratti in inganno da un’illusione?» mormorò Cyrus Smith.
No, non era possibile! Il telegramma aveva proprio detto: «Venite in fretta al recinto».
I coloni s’avvicinarono alla tavola destinata al telegrafo. Tutto era a posto, la pila e la scatola che la conteneva, e così pure l’apparecchio ricevente e trasmittente.
«Chi è venuto qui per ultimo?» chiese l’ingegnere.
«Io, signor Smith» rispose Ayrton.
«E quando?»
«Quattro giorni or sono.»
«Ah, uno scritto!» esclamò Harbert, mostrando una carta posata sulla tavola.
Su quella carta erano scritte, in inglese, queste parole: «Seguite il nuovo filo».
«In cammino!» esclamò Cyrus Smith, che comprese come il dispaccio non fosse partito dal recinto, ma dal nascondiglio misterioso, che un filo supplementare, collegato a quello vecchio, univa direttamente a GraniteHouse.
Nab prese la lanterna accesa e tutti lasciarono il recinto.
Il temporale si scatenava allora con estrema violenza. L’intervallo che separava ogni lampo dal colpo di tuono diminuiva sensibilmente. Il fenomeno stava per dominare il monte Franklin e l’intera isola. Alla viva luce dei bagliori intermittenti, si poteva vedere la sommità del vulcano impennacchiata di vapori.
In tutto il tratto del recinto, che separava la casa dalla cinta, non esisteva alcuna comunicazione telegrafica. Ma l’ingegnere, correndo direttamente al primo palo, dopo aver varcata la porta, vide al chiarore d’un lampo che un nuovo filo ricadeva dall’isolatore fino a terra.
«Eccolo!» disse.
Questo filo posava per terra, ma era avvolto per tutta la sua lunghezza da una sostanza isolante, come i cavi sottomarini, il che assicurava la libera trasmissione della corrente. Dalla sua direzione, pareva cacciarsi attraverso i boschi e i contrafforti meridionali della montagna, e correva verso l’ovest.
«Seguiamolo!» disse Cyrus Smith.
E ora alla luce della lanterna, ora sotto i lampeggiamenti della folgore, i coloni si slanciarono sulla via tracciata dal filo.
Il rombare del tuono era allora continuo, e così forte, che nessuna parola avrebbe potuto essere udita. D’altra parte, non si trattava di parlare, ma di andare avanti.
Cyrus Smith e i suoi salirono prima il contrafforte tra la vallata del recinto e quella del fiume della Cascata, che guadarono nella sua parte più stretta. Il filo, ora teso sui rami più bassi degli alberi, ora svolgentesi a terra, li guidava sicuramente.
L’ingegnere supponeva che quel filo si sarebbe probabilmente arrestato in fondo alla valle e che ivi si sarebbe trovato il rifugio ignorato.
Ma non fu così. Bisognò risalire il contrafforte di sudovest e ridiscendere sull’arido altipiano, limitato dalla muraglia di basalti, tanto stranamente ammonticchiati. Di tanto in tanto l’uno o l’altro dei coloni si chinava, tastava il filo con la mano e, all’occorrenza, rettificava la direzione. Ma non v’era più dubbio: il filo correva direttamente al mare. Là, indubbiamente, in qualche profondità delle rocce ignee, s’internava la dimora, invano cercata fino allora.
Il cielo era in fiamme. Un lampo non aspettava l’altro. Parecchi percuotevano la cima del vulcano e si precipitavano nel cratere, in mezzo al fumo denso. A momenti, si sarebbe potuto credere che il monte sprigionasse fiamme.
Pochi minuti prima delle dieci, i coloni erano arrivati sull’alto orlo roccioso, che dominava l’Oceano a ovest. S’era levato il vento. La risacca muggiva cinquecento piedi più sotto.
Cyrus Smith calcolò ch’egli e i suoi compagni avevano percorso la distanza di un miglio e mezzo dal recinto.
A questo punto il filo penetrava in mezzo alle rocce, seguendo la china abbastanza ripida d’un burrone stretto e capricciosamente conformato.
I coloni cominciarono a discendervi, a rischio di provocare qualche franamento di macigni male equilibrati e di precipitare in mare. La discesa era estremamente pericolosa, ma essi non pensavano al pericolo, non erano più padroni di sé e un’irresistibile forza li attirava verso quel punto misterioso, come la calamita attira il ferro.
Così, essi discesero quasi inconsciamente quel burrone, che, anche in piena luce, sarebbe stato pressoché impraticabile. Le pietre rotolavano e splendevano come bolidi infiammati, quando attraversavano le zone di luce. Cyrus Smith era in testa al gruppo. Ayrton chiudeva la marcia. Qui, procedevano a passo a passo; là, scivolavano sulla roccia levigata; poi si riamavano e continuavano la discesa.