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Alla fine, il filo, formando un angolo brusco, toccò le rocce del lido, disseminato di scogli, battuto senz’altro dalle grandi maree. I coloni avevano raggiunto il limite inferiore della muraglia basaltica.

Là si apriva uno stretto corridoio, che correva orizzontalmente e parallelamente al mare. Il filo lo seguiva e i coloni fecero altrettanto. Non avevano fatto cento passi, che il riparo, inclinandosi moderatamente, scese a poco a poco fino al livello stesso delle onde.

L’ingegnere afferrò il filo e vide che penetrava nel mare.

I suoi compagni, fermi vicino a lui, erano stupefatti.

Un grido di delusione, quasi di disperazione, sfuggì loro! Bisognava, dunque, tuffarsi sott’acqua e cercarvi qualche caverna sottomarina? Nello stato di sovreccitazione morale e fisica in cui si trovavano, non avrebbero esitato a farlo.

Ma una riflessione dell’ingegnere li trattenne.

Cyrus Smith condusse i suoi compagni sotto un’anfrattuosita delle rocce e disse:

«Aspettiamo. La marea è alta. Con la bassa marea la via sarà aperta.»

«Ma che cosa v’induce a credere?…» chiese Pencroff.

«Non ci avrebbe chiamati, se fosse mancato il modo per arrivare fino a lui!»

Cyrus Smith aveva parlato con accento di così profonda convinzione, che gli altri non sollevarono obiezione alcuna. Del resto, la sua osservazione era logica. Bisognava ammettere che un’apertura, praticabile a bassa marea e ostruita in quel momento dal flusso, s’aprisse ai piedi della muraglia.

Bisognava aspettare alcune ore. I coloni rimasero, dunque, silenziosamente rannicchiati sotto una specie di portico profondo, scavato nella roccia. La pioggia cominciava allora a cadere, e poco dopo le nubi lacerate dalla folgore si sciolsero a torrenti. Gli echi ripercuotevano il fragore del tuono con una sonorità grandiosa.

L’emozione dei coloni era estrema. Mille pensieri strani, straordinari, attraversavano il loro cervello rievocavano qualche grande e sovrumana apparizione, che solo avrebbe potuto corrispondere all’idea che essi si facevano del genio misterioso dell’isola.

A mezzanotte, Cyrus Smith, portando con sé la lanterna, discese sino a livello della spiaggia, allo scopo di osservare la disposizione delle rocce. La bassa marea durava già da due ore.

L’ingegnere non s’era ingannato. La curva della volta d’una vasta caverna cominciava a disegnarsi al di sopra delle acque. Per di là, il filo, piegandosi ad angolo retto, penetrava nella gola spalancata.

Cyrus Smith ritornò presso i compagni e disse loro semplicemente:

«Fra un’ora l’apertura sarà praticabile.»

«Essa esiste, dunque?» domandò Pencroff.

«Ne avete dubitato?» rispose Cyrus Smith.

«Ma questa caverna sarà piena d’acqua fino a una certa altezza» fece notare Harbert.

«O la caverna si prosciuga completamente,» rispose Cyrus Smith «e in questo caso la percorreremo a piedi, o, se non si prosciuga, un mezzo qualunque di trasporto sarà messo a nostra disposizione.»

Trascorse un’ora. Tutti discesero sotto la pioggia al livello del mare. In tre ore la marea era calata di quindici piedi. La sommità dell’arco tracciato dalla curvatura della volta sovrastava il livello dell’acqua di otto piedi almeno. Era come l’arco di un ponte, sotto cui passavano le acque schiumose.

Sporgendosi, l’ingegnere vide qualcosa di nero che galleggiava alla superficie del mare e lo trasse a sé.

Era una lancia, ormeggiata con una cima a qualche sporgenza interna della parete. Era di lamiera chiodata. A pagliuolo, sotto i banchi vi erano i remi.

«Imbarchiamoci» disse Cyrus Smith.

Un momento dopo, i coloni erano nella lancia. Nab e Ayrton s’erano messi ai remi, Pencroff al timone, Cyrus Smith a prua; la lanterna, posata a prua, illuminava la strada.

La volta, dapprima bassissima, sotto la quale la lancia passò, si alzava poi bruscamente; ma l’oscurità era troppo profonda e la luce del fanale insufficiente per poter conoscere l’estensione della caverna, la sua larghezza, altezza e profondità. In mezzo a quella costruzione basaltica regnava un silenzio imponente. Nessun rumore vi penetrava dal di fuori e gli scoppi del fulmine non potevano attraversare le sue spesse pareti.

Esistono in certe parti del globo di queste caverne immense, specie di cripte naturali, che datano dalle epoche geologiche. Alcune sono invase dalle acque del mare; altre contengono dei laghi interi nei loro fianchi. Come la grotta di Fingal, nell’isola di Staffa, una delle Ebridi; così le grotte di Morgat, sulla baia di Douarnenez, in Bretagna; le grotte di Bonifacio, in Corsica, quelle del LyseFjord, in Norvegia; così l’immensa caverna del Mammouth, nel Kentucky, alta cinquecento piedi e lunga più di venti miglia! In parecchi punti del globo la natura ha scavato queste cripte e le ha conservate all’ammirazione dell’uomo.

La caverna che i coloni stavano esplorando s’estendeva, dunque, sino al centro dell’isola? Da un quarto d’ora la lancia avanzava, facendo delle deviazioni che l’ingegnere indicava a Pencroff con voce breve, quando, a un certo momento:

«Più a dritta!» comandò Cyrus Smith.

La barca, modificando la sua direzione, andò tosto a rasentare la parete di destra. L’ingegnere voleva, con ragione, accertarsi se il filo correva sempre lungo la parete stessa.

Il filo era là, appeso alle sporgenze rocciose.

«Avanti!» disse Cyrus Smith.

E i due remi, tuffandosi nelle acque nere, spinsero innanzi l’imbarcazione. La lancia proseguì per un altro quarto d’ora e doveva aver percorso una distanza di circa mezzo miglio, quando si udì la voce di Cyrus Smith.

«Fermate!» disse.

La lancia si fermò e i coloni scorsero una viva luce, che illuminava l’enorme cripta, profondamente scavata nelle viscere dell’isola.

Allora fu possibile esaminare quella caverna, di cui nulla aveva mai potuto far supporre l’esistenza.

A un’altezza di cento piedi s’incurvava una volta, sostenuta da colonne di basalto, che sembravano essere state fuse tutte nel medesimo stampo. Spigoli irregolari, modanature capricciose spiccavano su quelle colonne, che la natura aveva erette a migliaia nelle prime epoche della formazione del globo. I tronconi di basalto, incastrati l’uno nell’altro, misuravano da quaranta a cinquanta piedi d’altezza e l’acqua, tranquilla, malgrado le agitazioni esterne, andava a bagnarne la base. Lo splendore della sorgente di luce, segnalata dall’ingegnere, investendo tutti gli spigoli prismatici e picchiettandoli di punte di fuoco, penetrava, per così dire, le pareti, come se fossero state diafane, e cambiava in tante scintillanti pietre preziose le minime sporgenze di quella costruzione.

Per un fenomeno di riflessione, l’acqua riproduceva quei diversi splendori alla sua superficie, in modo che la lancia sembrava galleggiare fra due zone sfavillanti.

Non era possibile sbagliarsi sulla natura dell’irradiazione proiettata dal centro luminoso, i cui raggi, netti e rettilinei, s’infrangevano contro tutti gli angoli, contro tutte le modanature della cripta. Quella luce proveniva da una sorgente elettrica, il suo colore bianco ne tradiva l’origine. Era come il sole della caverna, che ne era invasa tutta.

A un segno di Cyrus Smith, i remi ricaddero, facendo zampillare una vera pioggia di scintille, e la lancia si diresse verso la sorgente luminosa, dalla quale in breve si trovò distante solo la lunghezza di una mezza gomena.

In quel punto la larghezza della distesa d’acqua era di circa trecentocinquanta piedi e, al di là del centro abbagliante, si poteva scorgere un enorme muro di basalto, che chiudeva ogni apertura da quella parte. La caverna s’era, quindi, notevolmente allargata e il mare vi formava un laghetto. Ma la volta, le pareti laterali, la muraglia dell’abside, tutti quei prismi, tutti quei cilindri, tutti quei coni, erano immersi nel fluido elettrico, al punto che quello splendore pareva fosse una loro naturale emanazione e si sarebbe potuto dire che quelle pietre, sfaccettate come diamanti di gran valore, trasudavano luce!