Il capitano Nemo era un indiano, il principe Dakkar, figlio d’un ragià del territorio allora indipendente del Bundelkund e nipote dell’eroe dell’India, Tippo Saib. Suo padre, all’età di dieci anni, lo mandò in Europa, perché vi ricevesse un’educazione completa e con la segreta speranza che potesse un giorno lottare, ad armi eguali, contro coloro ch’egli considerava come gli oppressori del proprio Paese.
Dai dieci ai trent’anni, il principe Dakkar, dotato di un’anima superiore, grande di cuore e d’intelletto, si formò una vastissima, completa cultura e nelle scienze, nelle lettere, nelle arti spinse i suoi studi molto in alto e lontano.
Il principe Dakkar viaggiò per tutta l’Europa. La nobiltà delle sue origini e la sua ricchezza lo facevano ricercare da tutti, ma le seduzioni del mondo non l’attirarono mai. Giovane e bello, egli rimase serio, malinconico, divorato dalla sete del sapere, ed esacerbato da un implacabile risentimento.
Il principe Dakkar odiava. Odiava il solo Paese in cui non aveva mai voluto metter piede, la sola nazione di cui rifiutò costantemente le profferte: odiava l’Inghilterra e tanto più l’odiava in quanto, sotto certi aspetti, era costretto ad ammirarla.
Gli è che quest’indiano riassumeva in sé tutti i fieri rancori del vinto contro il vincitore. L’invasore non aveva potuto trovar grazia presso l’invaso. Il figlio d’uno di quei sovrani, di cui il Regno Unito ha potuto assicurarsi soltanto nominalmente la soggezione, questo principe, della famiglia di Tippo Saib, allevato nelle idee di rivendicazione e di vendetta, innamorato del suo poetico Paese, gravato di catene inglesi, non volle mai posare il piede sulla terra, per lui maledetta, alla quale l’India doveva il suo servaggio.
Il principe Dakkar divenne un artista, che le meraviglie dell’arte impressionavano nobilmente, uno scienziato cui nulla delle più ardue scienze era estraneo, un uomo di Stato formatosi alla scuola dei governi europei. Agli occhi di chi l’osservava superficialmente, egli passava forse per uno di quei cosmopoliti, curiosi di sapere, ma noncuranti d’agire; per uno di quegli opulenti viaggiatori, spiriti fieri e platonici, che corrono instancabilmente il mondo e non sono di nessun paese.
Non era così. Questo artista, questo scienziato, quest’uomo, era rimasto indiano nel cuore, indiano nel desiderio di vendetta, indiano nella speranza, che nutriva di poter un giorno rivendicare i diritti del suo Paese, di scacciarne lo straniero, di rendere all’India l’indipendenza.
Il principe Dakkar ritornò a Bundelkund nell’anno 1849. Si sposò con una nobile indiana, il cui cuore sanguinava come il suo per le sventure della patria. Ne ebbe due bambini, che amava teneramente. Ma la felicità domestica non poteva fargli dimenticare la schiavitù dell’India. Egli aspettava un’occasione. E questa si presentò.
Forse il giogo inglese s’era troppo pesantemente abbattuto sulle popolazioni indù. Il principe Dakkar raccolse e fece sua la voce degli scontenti. Infuse nella loro anima tutto l’odio che egli provava contro lo straniero. Percorse non solo le contrade ancora indipendenti della penisola indiana, ma anche le regioni direttamente sottoposte all’amministrazione inglese. Rievocò i gloriosi tempi di Tippo Saib, morto eroicamente a Seringapatam, difendendo la patria.
E nel 1857 scoppiò la grande rivolta dei sipoy. Il principe Dakkar ne fu l’anima. Egli organizzò l’immensa sollevazione. Mise la sua cultura e le sue ricchezze al servizio di quella causa. E pagò di persona; si batté in prima fila; arrischiò la vita come il più umile di quegli eroi che s’erano sollevati per riscattare il proprio Paese; fu ferito dieci volte in venti scontri, e ciò nonostante, quando gli ultimi soldati dell’indipendenza caddero sotto i proiettili inglesi, non aveva ancora potuto trovare la morte tanto cercata.
Mai la potenza britannica in India corse più serio pericolo; se, come avevano sperato, i soldati indiani avessero ricevuto aiuti dal di fuori, probabilmente sarebbe stata finita, in Asia, per l’influenza e la dominazione del Regno Unito.
Il nome del principe Dakkar fu illustre a quei tempi. L’eroe che lo portava non si nascose e lottò apertamente. Fu messa una taglia sulla sua testa, e poiché non si trovò un traditore che la desse nelle mani al nemico, suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli pagarono per lui, prima ancora ch’egli potesse conoscere i pericoli che correvano per causa sua…
Una volta ancora il diritto era caduto di fronte alla forza. Ma la civiltà non indietreggia mai e sembra prendere a prestito tutti i diritti dalla necessità. I sipoy furono vinti e il Paese degli antichi ragià ricadde sotto la dominazione, ancora più dura, dell’Inghilterra.
Il principe Dakkar, che non aveva potuto morire, ritornò fra le montagne del Bundelkund. Colà, solo ormai, preso da un immenso disgusto contro tutto ciò che portava nome umano, provando odio e orrore per il mondo civile, volendo fuggirlo per sempre, riunì i resti della sua fortuna, raccolse una ventina dei suoi fedeli compagni e un giorno tutti scomparvero.
Dove era, dunque, andato il principe Dakkar a cercare la libertà che la terra abitata gli rifiutava? Sott’acqua, nella profondità dei mari, ove nessuno poteva seguirlo.
All’uomo di guerra si sostituì lo scienziato. In un’isola deserta del Pacifico impiantò i suoi cantieri, e là, con i suoi piani, venne costruita una nave sottomarina. L’elettricità, della quale, mediante mezzi che saranno un giorno conosciuti, egli aveva saputo utilizzare l’incommensurabile forza meccanica e che attingeva a inesauribili fonti, fu impiegata in tutte le necessità del suo apparecchio galleggiante, come forza motrice, forza illuminante, forza calorifica. Il mare, con i suoi infiniti tesori, le sue miriadi di pesci, le sue raccolte di alghe e di sargassi, i suoi enormi mammiferi e non soltanto con tutto quello che la natura vi prodigava, ma anche con tutto quello che gli uomini vi avevano perduto, bastò ampiamente ai bisogni del principe e del suo equipaggio; e questo costituì il soddisfacimento pieno del suo più vivo desiderio, poiché egli non voleva avere più nessuna comunicazione con la terra. Chiamò il suo apparecchio sottomarino Nautilus, prese il nome di capitano Nemo e scomparve sotto i mari.
Nel corso di vari anni il capitano navigò per tutti gli oceani, da un polo all’altro. Paria dell’universo abitato, raccolse in quei mondi sconosciuti tesori ammirevoli. I milioni perduti nella baia di Vigo nel 1702 dai galeoni spagnoli gli fornirono una miniera inesauribile di ricchezze, di cui dispose sempre, e sempre anonimamente, a favore dei popoli che si battevano per l’indipendenza del loro Paese. (Nota: Si tratta della sollevazione di Candia che il capitano Nemo aiutò per l’appunto in queste condizioni. Fine nota)
Già da gran tempo egli non aveva più alcuna comunicazione con i suoi simili, quando, nella notte del 6 novembre 1866, tre uomini furono raccolti a bordo del Nautilus. Erano un professore francese, il suo domestico e un pescatore canadese. Questi tre uomini erano finiti in mare durante un urto avvenuto fra il Nautilus e la fregata degli Stati Uniti Abraham Lincoln, che gli dava la caccia.
Il capitano Nemo seppe da quel professore che il Nautilus, preso ora per un mammifero gigante della famiglia dei cetacei, ora per un’imbarcazione sottomarina, racchiudente un equipaggio di pirati, era inseguito su tutti i mari.
Il capitano Nemo avrebbe potuto restituire all’oceano quei tre uomini, che il caso gettava, così, attraverso la sua misteriosa esistenza. Non lo fece; li tenne invece prigionieri; perciò, durante sette mesi, essi poterono contemplare tutte le meraviglie di un viaggio, che continuò per ventimila leghe sotto i mari.
Un giorno, il 22 giugno 1867, quei tre uomini, che nulla sapevano del passato del capitano Nemo, riuscirono a fuggire, dopo essersi impadroniti del canotto del Nautilus. Ma siccome in quel momento il Nautilus era trascinato sulle coste della Norvegia, nei turbini del maelström, il capitano credette che i fuggitivi, travolti in quegli spaventevoli gorghi, avessero trovato la morte in fondo all’abisso. Ignorava, dunque, che il francese e i suoi due compagni fossero stati miracolosamente gettati sulla costa, che dei pescatori delle isole Lofoten li avessero raccolti e che il professore, al suo ritorno in Francia, avesse pubblicato l’opera in cui sette mesi della strana e avventurosa navigazione del Nautilus erano raccontati e offerti in pasto alla curiosità pubblica.