Per lungo tempo ancora, il capitano Nemo continuò a vivere così, correndo i mari. Ma a poco a poco i suoi compagni morirono e andarono a riposare nel loro cimitero di corallo, in fondo al Pacifico. Il vuoto si fece sul Nautilus e alla fine il capitano Nemo rimase il solo, di quanti si erano rifugiati con lui nelle profondità dell’oceano.
Il capitano Nemo aveva allora sessant’anni. Quando fu solo, ricondusse il suo Nautilus verso uno dei porti sottomarini, che gli servivano talvolta da ridosso e da scalo.
Uno di quei porti era sotto l’isola di Lincoln, ed era appunto quello che dava in quel momento asilo al Nautilus.
Da sei anni il capitano era là, non navigava più, ma aspettava la morte, vale a dire il momento in cui si sarebbe riunito ai suoi compagni, quando il caso lo fece assistere alla caduta del pallone, che portava i prigionieri dei sudisti. Rivestito del suo scafandro, passeggiava sotto le acque, alla distanza di alcune gomene dal lido, allorché l’ingegnere fu precipitato in mare. Un generoso impulso del cuore trascinò il capitano… e salvò Cyrus Smith.
A tutta prima volle fuggire lontano da quei cinque naufraghi, ma il suo porto di rifugio era chiuso e, in seguito a un sollevamento prodotto nel basalto sotto l’influenza di azioni vulcaniche, egli non poteva più varcare l’entrata della cripta. Dove c’era ancora abbastanza acqua per una leggera imbarcazione, non ce n’era più abbastanza per il Nautilus, il cui pescaggio era relativamente notevole.
Il capitano Nemo, quindi, rimase; poi osservò quegli uomini gettati, privi di tutto, su di un’isola deserta, ma non volle essere veduto. A poco a poco, quando li vide onesti, energici, uniti gli uni agli altri da un’amicizia fraterna, s’interessò ai loro sforzi. Così, suo malgrado, penetrò anche tutti i segreti della loro esistenza. Per mezzo dello scafandro, gli era facile arrivare in fondo al pozzo interno di GraniteHouse, e salendo su per le sporgenze della roccia fino alla sua apertura superiore, udiva i coloni raccontare il passato, studiare il presente e l’avvenire. Seppe da essi l’immenso sforzo dell’America contro l’America stessa, per abolire la schiavitù. Sì! quegli uomini erano degni di riconciliare il capitano Nemo con quell’umanità ch’essi rappresentavano tanto onestamente nell’isola!
Il capitano Nemo aveva salvato Cyrus Smith. Fu ancora lui che condusse il cane ai Camini, che rigettò Top dalle acque del lago, che fece arenare alla punta del Relitto la cassa contenente tanti oggetti utili per i coloni, che rimandò il canotto lungo la corrente del Mercy, che gettò la corda dall’alto di GraniteHouse in occasione dell’attacco delle scimmie, che fece conoscere la presenza di Ayrton all’isola di Tabor per mezzo del documento rinchiuso nella bottiglia, che fece saltare il brigantino con una torpedine messa in fondo al canale, che salvò Harbert da sicura morte provvedendo il solfato di chinino; lui, infine, che fulminò i pirati con quei proiettili elettrici di cui aveva il segreto e che usava nelle sue cacce sottomarine. Così si spiegavano tanti incidenti che dovevano sembrare soprannaturali e che attestavano la generosità e la potenza del capitano.
Malgrado tutto, questo grande misantropo aveva sete di bene. Gli rimaneva da dare ai suoi protetti degli utili consigli, e, d’altra parte, sentendo battere il proprio cuore, restituito a se stesso dall’avvicinarsi della morte, egli chiamò, com’è noto, i coloni di GraniteHouse per mezzo d’un filo, mediante il quale allacciò il recinto al Nautilus, ch’era munito d’un apparecchio telegrafico. Forse non l’avrebbe fatto, se avesse saputo che Cyrus Smith conosceva abbastanza la sua storia per salutarlo con il nome di Nemo.
Il capitano aveva finito il racconto della sua vita. Cyrus Smith allora prese la parola; ricordò tutti gli eventi che avevano esercitato sulla colonia una si provvida influenza, e per sé e a nome dei compagni, ringraziò l’essere generoso cui dovevano tanto.
Ma il capitano Nemo non pensava a chiedere il premio dei servigi resi. Un ultimo pensiero agitava il suo spirito, e prima di stringere la mano che l’ingegnere gli porgeva:
«Adesso, signore,» disse «adesso che conoscete la mia vita, giudicatela!»
Così parlando, il capitano alludeva evidentemente a un grave incidente, di cui i tre stranieri gettati a bordo del Nautilus erano stati testimoni, incidente che il professore francese aveva necessariamente raccontato nel suo libro e la cui impressione sull’opinione pubblica doveva essere stata terribile.
Infatti, pochi giorni prima della fuga del professore e dei suoi compagni, il Nautilus, inseguito da una fregata nell’Atlantico del nord, s’era precipitato come un ariete su di essa e l’aveva affondata senza pietà.
Cyrus Smith comprese l’allusione e tacque.
«Era una fregata inglese, signore,» esclamò il capitano Nemo, ridiventato per un istante il principe Dakkar «una fregata inglese, capite! Essa m’attaccava! Ero chiuso in una baia stretta e poco profonda, dovevo passare e… sono passato!»
Poi, con voce più calma:
«Ero nella giustizia e nel diritto» soggiunse. «Ho fatto ovunque il bene che ho potuto e anche il male che ho dovuto. La giustizia non è sempre nel perdono!»
Seguirono alcuni istanti di silenzio, poi il capitano Nemo pronunciò di nuovo questa frase:
«Che cosa pensate di me, signori?»
Cyrus Smith tese la mano al capitano e rispose con voce grave:
«Capitano, il vostro torto è d’aver creduto che si potesse resuscitare il passato; avete lottato contro il progresso inevitabile. Fu uno di quegli errori che alcuni ammirano, e altri biasimano, ma di cui Dio solo è giudice e che la ragione umana deve assolvere. Colui che s’inganna ma con un’intenzione che crede buona, si può combattere, ma non si cessa di stimarlo. Il vostro errore è di quelli che costringono all’ammirazione e il vostro nome non ha da temere il giudizio della storia. Essa ama le follie eroiche, pur condannandone i risultati.»
Il petto del capitano Nemo si sollevò ed egli tese la mano verso il cielo.
«Ho avuto torto o ragione?» mormorò. Cyrus Smith riprese:
«Tutte le grandi azioni risalgono a Dio, giacché vengono da lui! Capitano Nemo, i galantuomini che vi stanno dinanzi, e che voi avete soccorsi, vi piangeranno sempre!»
Harbert s’era avvicinato al capitano. Il giovinetto s’inginocchiò, gli prese la mano e gliela baciò.
Una lacrima scese dagli occhi del morente.
«Figlio mio,» diss’egli «sii benedetto!…»
CAPITOLO XVII
LE ULTIME ORE DEL CAPITANO NEMO «LE VOLONTÀ VI UN MORENTE» UN PENSIERO PER I SUOI AMICI D’UN TEMPO «LA BARA DEL CAPITANO NEMO» ALCUNI CONSIGLI AI COLONI «IL MOMENTO SUPREMO» IN FONDO AL MARE
ERA SORTO il giorno. Nessun raggio luminoso penetrava in quella cripta profonda. La marea, alta in quel momento, ne ostruiva l’apertura. Ma la luce artificiale, che si sprigionava in lunghi fasci attraverso le pareti del Nautilus, non s’era affievolita e la distesa d’acqua risplendeva sempre intorno all’apparecchio galleggiante.
Un’estrema stanchezza abbatteva allora il capitano Nemo, ch’era ricaduto sul divano. Non si poteva pensare di trasportarlo a GraniteHouse, perché egli aveva manifestato la volontà di rimanere in mezzo alle meraviglie del Nautilus, che non si sarebbero potute acquistar con milioni, e di aspettarvi una morte, che non poteva tardare.
Durante una prostrazione assai lunga, che lo ridusse quasi fuori di conoscenza, Cyrus Smith e Gedeon Spilett osservarono attentamente lo stato del malato. Era evidente che il capitano si spegneva a poco a poco. Le forze stavano per mancare a quel corpo un tempo così robusto, e ora fragile involucro di un’anima che stava per involarsi. Tutta la vita era concentrata nel cuore e nella testa.