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L’ingegnere e il giornalista si erano consultati a bassa voce. C’era qualche cura da prodigare a quel morente? Era possibile, se non salvarlo, almeno prolungarne per alcuni giorni la vita? Egli stesso aveva detto che non c’era alcun rimedio e attendeva tranquillamente la morte, che non temeva.

«Non possiamo far nulla» disse Gedeon Spilett.

«Ma di che cosa muore?» domandò Pencroff.

«Si spegne» rispose il cronista.

«Tuttavia,» riprese il marinaio «se lo trasportassimo all’aria aperta, in pieno sole, forse si rianimerebbe?»

«No, Pencroff,» rispose l’ingegnere «non possiamo tentare nulla! D’altra parte, il capitano Nemo non acconsentirebbe ad abbandonare il suo Nautilus. Da trent’anni vive sul Nautilus e sul Nautilus egli vuole morire.»

Indubbiamente il capitano Nemo udì la risposta di Cyrus Smith, perché si sollevò un poco e con voce debolissima, ma ancora intelligibile:

«Avete ragione, signore» disse. «Io devo e voglio morire qui. Anzi, ho qualcosa da chiedervi.»

Cyrus Smith e i suoi compagni si avvicinarono di nuovo al divano e ne disposero i cuscini in modo che il morente fosse meglio appoggiato.

Si poté allora vedere il suo sguardo fermarsi su tutte le meraviglie di quel salone, illuminato dai raggi elettrici, che filtravano dagli arabeschi d’un soffitto luminoso. Guardò, l’uno dopo l’altro, i quadri appesi alle splendide tappezzerie delle pareti, quei capolavori dei maestri italiani, fiamminghi, francesi e spagnoli; le riproduzioni scultoree in marmo e in bronzo, che si ergevano sui loro piedestalli; l’organo magnifico, addossato alla paratia di poppa; poi le vetrine disposte attorno a una vasca centrale, nella quale facevano splendida mostra i più ammirevoli prodotti del mare, piante marine, zoofiti, collane di perle d’inestimabile valore e, alla fine, i suoi occhi si fermarono sul motto scritto sul frontone di quel museo, il motto del Nautilus:

Mobilis in mobili.

Sembrava che il moribondo volesse un’ultima volta accarezzare con lo sguardo quei capolavori dell’arte e della natura, che avevano formato il suo limitato orizzonte, durante un soggiorno di tanti anni, negli abissi marini!

Cyrus Smith aveva rispettato il silenzio del capitano Nemo. Ora aspettava che il morente riprendesse la parola.

Dopo alcuni minuti, durante i quali aveva indubbiamente visto passare davanti a sé la sua vita intera, il capitano Nemo si volse ai coloni e disse loro:

«Credete, signori, di dovermi un po’ di riconoscenza?…»

«Capitano, daremmo la nostra vita per prolungare la vostra!»

«Bene!» riprese il capitano Nemo «bene!… Promettetemi d’eseguire le mie ultime volontà, e io sarò compensato di tutto quanto ho fatto per voi.»

«Ve lo promettiamo» rispose Cyrus Smith.

E con questa promessa egli impegnava i suoi compagni e sé.

«Signori,» riprese il capitano «domani sarò morto.»

E fermò con un gesto Harbert, che avrebbe voluto protestare.

«Domani sarò morto e desidero non avere altra tomba che il Nautilus. È la mia bara! Tutti i miei amici riposano in fondo al mare, e anch’io voglio riposare laggiù.»

Un silenzio profondo accolse queste parole del capitano Nemo.

«Ascoltatemi bene, signori» riprese. «Il Nautilus è imprigionato in questa grotta, il cui ingresso s’è sollevato. Ma, se non può abbandonare la sua prigione, può per lo meno sprofondarsi nell’abisso, ch’essa ricopre, e custodirvi la mia spoglia mortale.»

I coloni ascoltavano religiosamente le parole del morente.

«Domani, dopo la mia morte, signor Smith,» riprese il capitano «voi e i vostri compagni abbandonerete il Nautilus, giacché tutte le ricchezze ch’esso contiene devono sparire con me. Un solo ricordo vi rimarrà del principe Dakkar, di cui voi sapete adesso la storia. Quel cofanetto… là… racchiude diamanti per parecchi milioni, per la maggior parte ricordi del tempo in cui, sposo e padre, ho quasi creduto alla felicità, e una collezione di perle raccolte dai miei amici e da me nel fondo dei mari. Con questo tesoro potrete fare, un giorno, delle opere buone. In mani come le vostre e in quelle dei vostri compagni, signor Smith, il denaro non può essere un pericolo. Io sarò dunque, di lassù, associato alle vostre opere, e non dubito che saranno ottime!»

Dopo alcuni istanti di riposo, reso necessario dalla sua estrema debolezza, il capitano Nemo riprese in questi termini:

«Domani prenderete quel cofanetto e abbandonerete questa sala, di cui chiuderete la porta; poi, risalirete sulla piattaforma del Nautilus, di cui abbasserete il portello, che fisserete per mezzo delle sue chiavarde.»

«Lo faremo, capitano» rispose Cyrus Smith.

«Bene. Vi imbarcherete poi sulla lancia che vi ha condotti. Ma prima d’abbandonare il Nautilus, andate a poppa e là aprite due grosse valvole, che si trovano sulla linea di galleggiamento. L’acqua penetrerà nelle casse e il Nautilus s’immergerà a poco a poco per andare ad adagiarsi sul fondo dell’abisso.»

E vedendo Cyrus Smith fare un gesto, il capitano soggiunse:

«Non abbiate alcun timore! Non seppellirete che un morto!»

Né Cyrus Smith, né alcuno dei suoi compagni credettero di dover muovere qualche obiezione al capitano Nemo. Egli trasmetteva loro le sue ultime volontà, ed essi non avevano che da eseguirle.

«Ho la vostra promessa, signori?» aggiunse il capitano Nemo.

«L’avete, capitano» rispose l’ingegnere.

Il capitano fece un segno di ringraziamento e pregò i coloni di lasciarlo solo per alcune ore. Gedeon Spilett insistette per rimanere presso di lui, nel caso che sopraggiungesse una crisi, ma il morente rifiutò, dicendo:

«Vivrò fino a domani, signore!»

Tutti lasciarono il salone, attraversarono la biblioteca e la sala da pranzo, e giunsero a prua, nel locale delle macchine, dov’erano installati gli apparecchi elettrici che, oltre al calore e alla luce, fornivano al Nautilus la forza meccanica.

Il Nautilus era un capolavoro, che conteneva dei capolavori, e l’ingegnere ne fu meravigliato.

I coloni salirono sulla piattaforma, che emergeva di sette od otto piedi sull’acqua. Là essi si distesero presso una spessa lastra di vetro lenticolare, che otturava una specie di grosso occhio, dal quale scaturiva un fascio di luce. Dietro quest’occhio si scorgeva una cabina, che conteneva le ruote del timone e nella quale stava il timoniere quando dirigeva il Nautilus attraverso gli strati liquidi, che i raggi elettrici dovevano rischiarare per una notevole distanza.

Cyrus Smith e i suoi compagni rimasero in silenzio, vivamente impressionati da ciò che avevano veduto e sentito, e il loro cuore si stringeva pensando che l’uomo che li aveva tante volte soccorsi, il protettore che avevano conosciuto da poche ore appena, era sulle soglie della morte!

Qualunque giudizio la posterità avesse pronunciato sugli atti di quell’esistenza, per così dire sovrumana, il principe Dakkar sarebbe rimasto sempre una di quelle straordinarie figure di cui non può cancellarsi il ricordo.

«Ecco un uomo!» disse Pencroff. «Si può credere che un uomo simile abbia vissuto così in fondo all’oceano? E dire che, forse, egli non ci ha trovato maggior tranquillità che altrove!»

«Il Nautilus,» fece allora osservare Ayrton «avrebbe forse potuto servirci a lasciare l’isola di Lincoln e a raggiungere qualche terra abitata.»

«Per mille diavoli!» esclamò Pencroff «io di certo non mi arrischierei a governare una simile nave. Correre sui mari, sta bene! ma sotto i mari, no davvero!»

«Credo» rispose il giornalista «che la manovra d’un apparecchio sottomarino come il Nautilus debba essere facilissima, Pencroff, e che faremmo presto a impratichircene. Non tempeste, non abbordi da temere. A pochi piedi sotto la superficie, le acque del mare sono calme come un lago.»