«Possibilissimo!» ribatté il marinaio «ma preferisco una bella burrasca a bordo d’una nave bene attrezzata. Un bastimento è fatto per andare sopra l’acqua e non sotto!»
«Amici,» rispose l’ingegnere «è inutile, almeno per quanto concerne il Nautilus, discutere il problema dei sottomarini. Il Nautilus non è nostro e noi non abbiamo il diritto di disporne. D’altra parte, esso non potrebbe servirci in alcun caso. Oltre a non poter più uscire da questa caverna, il cui ingresso è ora chiuso da un sollevamento delle rocce basaltiche, il capitano Nemo vuole ch’esso s’inabissi con lui dopo la sua morte. La sua volontà è formale e noi l’eseguiremo.»
Cyrus Smith e i suoi compagni, dopo una conversazione che si prolungò per qualche tempo ancora, ridiscesero nell’interno del Nautilus. Presero qualche cibo, poi rientrarono nel salone.
Il capitano Nemo era rinvenuto dalla prostrazione che l’aveva precedentemente abbattuto e i suoi occhi avevano ripreso il loro splendore. Si vedeva come un sorriso spuntar sulle sue labbra.
I coloni gli si avvicinarono.
«Signori,» disse loro il capitano «voi siete degli uomini coraggiosi, onesti e buoni. Vi siete tutti votati interamente al bene comune. Vi ho spesso osservati, e vi amo, vi amo!… La vostra mano, signor Smith!»
Cyrus Smith porse la mano al capitano, che la strinse affettuosamente.
«Questo fa bene!» mormorò. Poi riprese: ^
«Ma basta parlare di me! Devo parlarvi di voi stessi e dell’isola di Lincoln, sulla quale avete trovato asilo… Avete intenzione di abbandonarla?»
«Per ritornarvi, però, capitano!» rispose vivacemente Pencroff.
«Ritornarvi?… Infatti, Pencroff,» rispose il capitano sorridendo «so quanto amate quest’isola. Essa s’è modificata mercé le vostre fatiche ed è ben vostra!»
«Il nostro disegno, capitano,» disse allora Cyrus Smith «sarebbe di offrirla agli Stati Uniti e di fondarvi, per la nostra marina, uno scalo, che sarebbe felicemente situato in questa parte del Pacifico.»
«Voi pensate al vostro Paese, signori!» rispose il capitano. «Lavorate per la sua prosperità, per la sua gloria. Avete ragione. La patria!… Là bisogna ritornare! Là si deve morire!… E io, io muoio lontano da tutto quello che ho amato!»
«Avreste qualche ultima volontà da esprimere?» disse calorosamente l’ingegnere «qualche ricordo da recare agli amici, che avete dovuto lasciare nelle montagne dell’India?»
«No, signor Smith. Non ho più amici. Sono l’ultimo della mia razza… e sono morto da un pezzo, per tutti coloro che ho conosciuto… Ma ritorniamo a voi. La solitudine, l’isolamento sono cose tristi, al di sopra delle forze umane… Io muoio per aver creduto di poter vivere solo!… Voi dovete, dunque, tentare di tutto per lasciare l’isola di Lincoln e per rivedere la terra ove siete nati. So che quei miserabili hanno distrutto l’imbarcazione che avevate costruita…»
«Adesso stiamo costruendo una nave,» disse Gedeon Spilett «una nave abbastanza grande per trasportarci fino alle terre più vicine; ma se anche riusciamo, presto o tardi, a lasciarla, ritorneremo all’isola di Lincoln. Troppi ricordi ci avvincono a essa, perché possiamo dimenticarla!»
«Qui abbiamo conosciuto il capitano Nemo» disse Cyrus Smith.
«Soltanto qui ritroveremo tutto intero il vostro ricordo!» aggiunse Harbert.
«E qui io riposerò nell’eterno sonno, se…» rispose il capitano. Esitò e, invece di finire la frase, si limitò a dire:
«Signor Smith, vorrei parlare… a voi solo!»
I compagni dell’ingegnere, rispettando il desiderio del moribondo, si ritirarono.
Cyrus Smith rimase soltanto pochi minuti con il capitano Nemo e tosto richiamò i suoi amici, ma nulla disse loro dei segreti che il morente aveva voluto confidargli.
Gedeon Spilett osservò allora il malato con attenzione estrema. Era evidente che il capitano non era più sostenuto che da una grande energia morale e che tra poco non avrebbe potuto più reagire al suo indebolimento fisico.
La giornata finì senza che alcun cambiamento si manifestasse. I coloni non lasciarono un istante il Nautilus. Era sopraggiunta la notte, benché in quella cripta fosse impossibile accorgersene.
Il capitano Nemo non soffriva, ma veniva meno. Il suo nobile volto, reso pallido dall’avvicinarsi della morte, era calmo. Dalle sue labbra sfuggivano talvolta parole quasi inafferrabili, che si riferivano a diversi eventi della sua strana esistenza. Si sentiva che la vita si ritraeva a poco a poco da quel corpo, le cui estremità erano già fredde.
Una o due volte ancora egli rivolse la parola ai coloni disposti intorno a lui e sorrise loro con quel sorriso estremo proprio dei morenti, che continua anche quando la morte è sopraggiunta.
Poco dopo mezzanotte, il capitano Nemo fece un movimento supremo e riuscì a incrociare le braccia sul petto, come se avesse voluto morire in quell’atteggiamento.
Verso l’una del mattino tutta la sua vita s’era unicamente rifugiata nello sguardo. Un ultimo fuoco brillò in quella pupilla, da cui un tempo tante fiamme erano scaturite. Poi, mormorando queste parole: «Dio e Patria!» spirò dolcemente.
Allora Cyrus Smith, inchinandosi, chiuse gli occhi di colui ch’era stato il principe Dakkar e che non era nemmeno più il capitano Nemo.
Harbert e Pencroff piangevano. Ayrton s’asciugava una lacrima furtivamente. Nab era inginocchiato vicino al giornalista, mutato in statua.
Cyrus Smith, levando una mano sopra il capo del morto:
«Che Dio abbia l’anima sua!» disse. E voltandosi verso i suoi amici, soggiunse: «Preghiamo per colui che abbiamo perduto!»
Alcune ore dopo, i coloni mantenevano la promessa fatta al capitano, mettendo in esecuzione le sue ultime volontà.
Cyrus Smith e i compagni abbandonarono il Nautilus, portando via l’unico ricordo ch’era stato a essi legato dal loro benefattore, quel cofanetto che racchiudeva tante fortune.
Il meraviglioso salone, sempre inondato di luce, era stato chiuso accuratamente. Quindi, il portello di lamiera del boccaporto fu inchiavardato, in modo che nemmeno una goccia d’acqua potesse penetrare all’interno del Nautilus.
Poi, i coloni discesero nella lancia ch’era attraccata al fianco della nave sottomarina.
La lancia fu condotta a poppa. Là, sulla linea di galleggiamento, s’aprivano due grosse valvole, ch’erano in comunicazione con le casse destinate a determinare l’immersione dell’apparecchio.
Le valvole furono aperte, le casse si empirono e il Nautilus, immergendosi a poco a poco, scomparve sotto la liquida distesa.
Però i coloni poterono seguirlo ancora attraverso gli strati subacquei. La sua luce possente rischiarava le acque trasparenti, mentre la cripta ridiventava oscura. Poi, quella vasta sorgente d’emanazioni elettriche alla fine si spense e poco dopo il Nautilus, divenuto la bara del capitano Nemo, giaceva in fondo al mare.
CAPITOLO XVIII
LE RIFLESSIONI DI CIASCUNO «RIPRESA DEI LAVORI DI COSTRUZIONE» IL PRIMO GENNAIO 1869 «UN PENNACCHIO IN CIMA AL VULCANO» PRIMI SINTOMI DI UN’ERUZIONE «AYRTON E CYRUS SMITH AL RECINTO» ESPLORAZIONE NELLA CRIPTA DAKKAR «QUEL CHE IL CAPITANO NEMO AVEVA DETTO ALL’INGEGNERE»
ALLO SPUNTAR del giorno, i coloni avevano di nuovo raggiunto, in silenzio, l’ingresso della caverna, cui diedero il nome di «cripta Dakkar», in memoria del capitano Nemo. La marea era bassa ed essi poterono agevolmente passare sotto l’arcata, la cui base era battuta dal flusso.
La lancia in ferro fu lasciata in questo luogo sicuro, opportunamente al riparo, e per maggior precauzione Pencroff, Nab e Ayrton la alarono sul piccolo greto, confinante con uno dei lati della grotta, in un luogo ove non correva nessun pericolo.