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L’uragano era cessato con la notte. Gli ultimi rombi del tuono s’allontanavano spegnendosi verso ovest. Non pioveva più, ma il cielo era ancora carico di nubi. Insomma, questo mese d’ottobre, inizio della primavera australe, non si presentava sotto i migliori auspici e il vento aveva tendenza a saltare da un quadrante all’altro, e non permetteva di fare assegnamento su di un tempo stabile.

Cyrus Smith e i compagni, lasciando la cripta Dakkar, avevano ripreso la via del recinto. Cammin facendo, Nab e Harbert ebbero cura di staccare il filo teso dal capitano tra il recinto e la cripta, perché avrebbe potuto essere utilizzato.

Camminando, i coloni parlavano poco. I diversi avvenimenti della notte dal 15 al 16 ottobre li avevano vivamente impressionati. Lo sconosciuto che li aveva sino allora così efficacemente protetti, l’uomo che la loro immaginazione elevava a genio, il capitano Nemo, non era più. Il suo Nautilus e lui erano sepolti in fondo a un abisso. Sembrava a ciascuno che il loro isolamento fosse maggiore di prima. S’erano, per così dire, abituati a contare su quel potente intervento, che ormai mancava loro per sempre. Gedeon Spilett e lo stesso Cyrus Smith non potevano sottrarsi a quell’impressione. Perciò mentre andavano lungo la strada del recinto, tutti serbavano il più profondo silenzio.

Verso le nove della mattina, i coloni erano rientrati a GraniteHouse.

Era stato convenuto che la costruzione della nave sarebbe stata attivamente sollecitata, e Cyrus Smith le dedicò più che mai il suo tempo e le sue cure. Non si poteva sapere quel che riservasse l’avvenire. Era una garanzia per i coloni avere a loro disposizione un solido bastimento, capace di tenere il mare anche con il cattivo tempo e abbastanza grande per tentare, all’occorrenza, una traversata di qualche importanza. Se, terminato il bastimento, i coloni non si fossero decisi ancora a lasciare l’isola di Lincoln, per raggiungere o un arcipelago polinesiano del Pacifico, o le coste della Nuova Zelanda, si sarebbero per lo meno recati al più presto all’isola di Tabor, allo scopo di depositarvi lo scritto relativo ad Ayrton. Era una precauzione indispensabile da prendere, per il caso in cui lo yacht scozzese fosse ricomparso in quei mari.

I lavori furono, dunque, ripresi. Cyrus Smith, Pencroff e Ayrton, aiutati da Nab, da Gedeon Spilett e da Harbert, salvo quando qualche altra faccenda urgente li richiamava altrove, lavoravano senza posa nel cantiere. Era necessario che il nuovo bastimento fosse pronto entro cinque mesi, vale a dire per il principio del mese di marzo, se si voleva visitare l’isola di Tabor prima che i venti equinoziali avessero reso quella traversata impossibile. Così i carpentieri non perdettero un momento. D’altronde, non avevano da preoccuparsi per l’attrezzatura, giacché quella del brigantino era stata salvata per intero. Bisognava dunque, innanzi tutto, portare a termine lo scafò della nave.

La fine dell’anno 1868 passò in questi importanti lavori, escludendone quasi completamente ogni altro. In capo a due mesi e mezzo, le coste erano state sistemate e i primi corsi di fasciame inchiodati. Già si poteva vedere che i piani disegnati da Cyrus Smith erano eccellenti e che la nave si sarebbe comportata bene in mare. Pencroff si applicava al lavoro anima e corpo e non si faceva riguardo di brontolare, quando l’uno o l’altro abbandonava l’ascia del carpentiere per il fucile del cacciatore. Tuttavia, bisognava pur mantenere fornite le riserve di GraniteHouse, in vista del prossimo inverno. Ma il bravo marinaio non era contento, quando gli operai mancavano al cantiere. In quelle occasioni, brontolando, egli faceva, per collera, il lavoro di sei uomini.

Tutta quella stagione estiva fu cattiva. Durante alcuni giorni il calore fu estenuante e l’atmosfera, satura di elettricità, si scaricava poi mediante violenti temporali, che turbavano assai gli strati atmosferici. Era raro che non si udissero dei lontani rombi di tuono. Era come un brontolio sordo, ma permanente, simile a quello che si fa udire nelle regioni equatoriali del globo.

Il 1° gennaio 1869 si distinse per una burrasca di estrema violenza e il fulmine colpì più volte l’isola. Grossi alberi furono abbattuti, fra gli altri uno di quegli enormi bagolari, che ombreggiavano il pollaio all’estremità sud del lago. Quel fatto aveva forse una qualche relazione con i fenomeni che si svolgevano nelle viscere della terra? Si stabiliva forse una specie di connessione fra le perturbazioni dell’aria e quelle delle parti interne del globo? Cyrus Smith fu indotto a crederlo, poiché lo sviluppo di quei temporali fu contraddistinto da una recrudescenza dei sintomi vulcanici.

Il 3 gennaio Harbert, essendo fin dall’alba salito all’altipiano di Bellavista per sellare uno degli onagri, scorse un enorme pennacchio, che si sprigionava dalla cima del vulcano.

Harbert preavverti tosto i coloni, che andarono subito a osservare la vetta del monte Franklin.

«Eh!» esclamò Pencroff «non sono vapori, stavolta! Mi pare che il gigante non si contenti più di respirare, ma che fumi!»

L’immagine usata dal marinaio rappresentava giustamente la modificazione operatasi alla bocca del vulcano. Già da tre mesi il cratere emetteva dei vapori più o meno intensi, ma che provenivano ancora da un’ebollizione interna delle materie minerali. Stavolta, ai vapori era seguito un fumo denso, che s’elevava sotto forma di colonna grigiastra, larga più di trecento piedi alla base e aprentesi come un immenso fungo a un’altezza da sette a ottocento piedi sopra la cima del monte.

«Il fuoco è nel camino» disse Gedeon Spilett.

«E noi non potremo spegnerlo!» rispose Harbert.

«Si dovrebbero pulire anche i vulcani» fece osservare Nab, che sembrava parlare con la maggior serietà del mondo.

«Bell’idea, Nab!» esclamò Pencroff. «T’incaricheresti tu di quella pulitura?»

E Pencroff proruppe in una larga risata.

Cyrus Smith osservava attentamente il fumo proiettato dal monte Franklin e tendeva anche l’orecchio, come se avesse voluto sorprendere qualche lontano brontolio. Poi, tornando verso i compagni, da cui s’era allontanato un poco:

«Infatti, amici, si è prodotta un’importante modificazione, non dobbiamo nascondercelo. Le materie vulcaniche non sono più solamente allo stato di ebollizione; hanno preso fuoco e noi siamo certamente minacciati da una prossima eruzione!»

«Ebbene, signor Smith, si vedrà l’eruzione,» esclamò Pencroff «e la si applaudirà, se sarà ben riuscita! Penso che non ci sia di che preoccuparci!»

«No, Pencroff,» rispose Cyrus Smith «perché l’antica strada delle lave è sempre aperta, e il cratere, grazie alla sua disposizione, le ha finora sempre riversate verso il nord. Eppure…»

«Eppure, poiché da un’eruzione non c’è da trarre alcun vantaggio, sarebbe meglio che non si verificasse» disse il giornalista.

«Chi sa?» rispose il marinaio. «Forse in questo vulcano c’è qualche utile e preziosa materia, ch’esso vomiterà compiacentemente e di cui faremo buon uso!»

Cyrus Smith crollò il capo, da uomo che non s’aspettava niente di buono dal fenomeno, il cui svolgimento si presentava così improvviso. Egli non considerava leggermente, come Pencroff, le conseguenze di un’eruzione. Se le lave, dato l’orientamento del cratere, non minacciavano direttamente le parti boschive e coltivate dell’isola, altre complicazioni potevano presentarsi. Infatti, non è raro che le eruzioni siano accompagnate da terremoti, e un’isola della natura di quella di Lincoln, formata di materie così diverse — basalti da una parte, granito dall’altra, lave al nord, suolo friabile a mezzogiorno, materie che, di conseguenza, non potevano essere solidamente unite fra loro — avrebbe corso il rischio di disgregarsi. Se, quindi, l’effusione delle sostanze vulcaniche non costituiva un pericolo molto serio, ogni movimento della struttura terrestre, che avesse scosso l’isola, poteva produrre conseguenze molto gravi.