«Poiché andate domani al recinto, vi accompagnerò.»
«Eh! signor Cyrus!» esclamò il marinaio «i nostri giorni di lavoro sono contati e, se voi pure partite, saranno quattro braccia di meno!»
«Saremo di ritorno l’indomani,» rispose Cyrus Smith «ma ho bisogno d’andare al recinto. Desidero stabilire a che punto si trova l’eruzione.»
«L’eruzione! L’eruzione!.» rispose Pencroff, con aria poco soddisfatta. «Questa eruzione è certamente una cosa importante, eppure non m’inquieta per nulla!»
Checché ne dicesse il marinaio, l’esplorazione stabilita dall’ingegnere venne fissata per l’indomani. Harbert avrebbe desiderato vivamente accompagnare Cyrus Smith, ma non volle contrariare Pencroff assentandosi.
L’indomani, allo spuntar del giorno, Cyrus Smith e Ayrton, montando sul carro tirato da due onagri, correvano a gran trotto sulla via del recinto.
Sul cielo della foresta passavano grosse nuvole, che il cratere del monte Franklin formava incessantemente con le sue materie fuligginose. Quelle nubi, che si movevano pesantemente nell’atmosfera, erano evidentemente composte di sostanze eterogenee. Non al solo fumo del vulcano esse dovevano la loro strana opacità e pesantezza. Scorie allo stato di polvere, pozzolana polverizzata e ceneri grigiastre, finì quanto la più fine fecola, erano sospese fra le loro dense volute. Queste ceneri sono così tenui, che talvolta si videro mantenersi nell’aria per mesi interi. Dopo l’eruzione del 1783, in Islanda, durante più di un anno l’atmosfera fu così carica di polveri vulcaniche da lasciare a malapena passare i raggi del sole.
Ma più spesso queste materie polverizzate s’abbassavano, e così accadde anche in quell’occasione. Cyrus Smith e Ayrton erano appena giunti al recinto, che una specie di neve nerastra, simile a una leggera polvere da sparo, cadde e modificò istantaneamente l’aspetto del suolo. Alberi, prati, tutto fu ricoperto da uno strato di parecchi pollici di spessore. Fortunatamente, però, tirava vento da nordest, e la maggior parte della nuvola andò a dissolversi sul mare.
«Ecco un fatto singolare, signor Smith» disse Ayrton.
«Ecco un fatto grave» rispose l’ingegnere. «Questa pozzolana, queste pietre pomici polverizzate, in una parola tutta questa polvere minerale, dimostra quanto profondo è lo sconvolgimento negli strati inferiori del vulcano.»
«Ma non c’è nulla da fare?»
«Nulla. Non c’è che da rendersi conto dei progressi del fenomeno. Voi, dunque, Ayrton, occupatevi delle faccende del recinto. Nel frattempo, io risalirò le sorgenti del Creek Rosso ed esaminerò lo stato del monte alla sua pendice settentrionale. Poi…»
«Poi… signor Smith?»
«Poi faremo una visita alla cripta Dakkar… Voglio vedere… Insomma, ritornerò a prendervi fra due ore.»
Ayrton entrò allora nella corte del recinto e, aspettando il ritorno dell’ingegnere, s’occupò dei mufloni e delle capre, che sembravano provare un certo malessere davanti a quei primi sintomi di un’eruzione.
Intanto, Cyrus Smith, dopo essersi avventurato sulla cresta dei contrafforti orientali, aggirò il Creek Rosso e arrivò nel punto ove lui e i suoi compagni avevano scoperto una sorgente solforosa, al tempo della loro prima esplorazione.
Le cose erano molto cambiate; invece d’una sola colonna di fumo, egli ne contò tredici, che si sprigionavano fuori dalla terra come se fossero state violentemente spinte all’insù da qualche stantuffo. Era evidente che la crosta terrestre subiva, in quel punto del globo, una spaventosa pressione. L’atmosfera era satura di gas solforosi, d’idrogeno, d’acido carbonico, frammisti a vapore acqueo. Cyrus Smith sentiva fremere i tufi vulcanici, di cui la pianura era sparsa e che non erano se non ceneri polverulente, che il tempo aveva solidificato; ma non vide nessuna traccia di lave recenti.
L’ingegnere poté assicurarsi ancora più completamente di ciò, quando ebbe osservato tutto il versante settentrionale del monte Franklin. Vortici di fumo e di fiamme uscivano dal cratere; una gragnuola di scorie cadeva al suolo; ma nessuna fuoruscita di lava si operava attraverso l’apertura del cratere, e ciò provava che il livello delle materie vulcaniche non aveva ancora raggiunto la sommità del camino centrale.
«Preferirei, invece, che fosse il contrario!» si disse Cyrus Smith. «Almeno sarei certo che le lave hanno ripreso il loro corso normale. Chi sa, se non si scaricheranno per qualche nuova bocca? Ma non è questo il pericolo! Il capitano Nemo l’ha giustamente presentito! No! il pericolo non è questo!»
Cyrus Smith avanzò sino all’enorme rialzo, il cui prolungamento circondava lo stretto golfo del Pescecane. Così poté esaminare sufficientemente da quel lato le vecchie striature lasciate dalle lave. Dopo questo attento esame non vi fu più dubbio per lui: l’ultima eruzione risaliva a epoca lontanissima.
Allora ritornò sui suoi passi, prestando orecchio ai boati sotterranei, che si propagavano susseguendosi come un tuono continuo, sul quale emergevano a tratti fragorose detonazioni. Alle nove della mattina era di ritorno al recinto.
Ayrton l’aspettava.
«Gli animali sono rifocillati, signor Smith» disse Ayrton.
«Sta bene, Ayrton.»
«Sembrano inquieti, signor Smith.»
«Sì, l’istinto parla in loro, e l’istinto non inganna.»
«Quando vorrete…»
«Prendete una lanterna e un acciarino, Ayrton,» disse l’ingegnere «e partiamo.»
Ayrton fece quanto gli era stato ordinato. Gli onagri, staccati dal carro, vagavano per il recinto. La porta fu chiusa esternamente, e Cyrus Smith, precedendo Ayrton, prese, verso ovest, lo stretto sentiero che conduceva alla costa.
Ambedue camminavano su di un suolo ovattato dalla polvere caduta dalle nubi. Nessun quadrupede si scorgeva nei boschi. Anche gli uccelli erano fuggiti. A tratti, una leggera brezza sollevava lo strato di cenere e i due coloni, presi in un vortice opaco, non sì. vedevano più. Avevano cura allora di applicarsi un fazzoletto sugli occhi e sulla bocca, giacché correvano rischio d’essere accecati e soffocati.
Cyrus Smith e Ayrton, in quelle condizioni, non potevano camminare rapidamente. Inoltre, l’aria era pesante, come se il suo ossigeno fosse stato in parte bruciato e fosse divenuto inadatto alla respirazione. Ogni cento passi dovevano fermarsi a riprender fiato. Erano già passate le dieci quando l’ingegnere e il suo compagno raggiunsero la cresta dell’enorme cumulo di rocce basaltiche e porfiriche, che formava la costa nordovest dell’isola.
Ayrton e Cyrus Smith cominciarono a discendere quella costa scoscesa, seguendo press’a poco l’accidentato percorso che nella notte della tempesta li aveva condotti alla cripta Dakkar. In pieno giorno, questa discesa fu meno pericolosa e, d’altronde, lo strato di ceneri, ricoprendo le rocce altrimenti troppo levigate, permetteva d’assicurare più solidamente il piede sulle superfici in pendio.
Il rialzo che costeggiava il lido, a un’altezza di quaranta piedi circa, fu in breve raggiunto. Cyrus Smith si ricordava che quel corridoio declinava per un dolce pendio fino al livello del mare. Benché la marea fosse bassa in quel momento, nessun arenile si mostrava e le onde, sporche di polvere vulcanica, andavano a battere direttamente contro il basalto del litorale.
Cyrus Smith e Ayrton ritrovarono senza fatica l’apertura della cripta Dakkar e si fermarono sotto l’ultimo scoglio che formava il ripiano inferiore del rialzo.
«La lancia dev’essere là» disse l’ingegnere.
«C’è, signor Smith» rispose Ayrton, tirando a sé la leggera imbarcazione, ch’era ricoverata sotto la volta dell’arcata.
«Imbarchiamoci, Ayrton.»
I due coloni s’imbarcarono nella lancia. Una leggera ondulazione li spinse ancor più sotto la bassissima volta della cripta; ivi, Ayrton, dopo aver battuto l’acciarino, accese la lanterna. Poi afferrò i due remi; la lanterna fu posta sul tagliamare della lancia, in maniera da proiettare i suoi raggi in avanti e Cyrus Smith prese la barra, governando in mezzo alle tenebre della cripta.