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Non c’era più il Nautilus a illuminare con la sua vivida luce l’oscura caverna. Probabilmente, l’irradiazione elettrica, sempre nutrita dalla sua potente sorgente, si propagava ancora in fondo alle acque, ma nessun chiarore usciva, naturalmente, dal baratro ove riposava il capitano Nemo.

La luce della lanterna, benché insufficiente, permise tuttavia all’ingegnere di avanzare, seguendo la parete destra della cripta. Un silenzio sepolcrale regnava sotto quella volta, per lo meno nella sua parte anteriore, giacché ben presto Cyrus Smith udì distintamente i brontolii, che partivano dal seno della montagna.

«È il vulcano» disse.

Poco dopo, un acuto odore rivelò l’esistenza di agenti chimici, e dei vapori solforosi presero alla gola l’ingegnere e il suo compagno.

«Ecco quello che temeva il capitano Nemo» mormorò Cyrus Smith, impallidendo leggermente. «Bisogna, tuttavia, andar sino in fondo.»

«Andiamo!» rispose Ayrton, che si curvò sui remi e spinse la lancia verso il fondo della cripta.

Venticinque minuti dopo aver varcato l’apertura, la lancia arrivava alla parete terminale e si fermava.

Allora Cyrus Smith, salendo sul sedile, esplorò con la lanterna le diverse zone della parete, che separava la cripta dal camino centrale del vulcano. Quale era lo spessore di questa parete? Era di cento piedi o soltanto di dieci? Non era possibile dirlo. Ma i rumori sotterranei erano troppo percettibili, perché fosse molto grossa.

L’ingegnere, dopo avere esplorato la muraglia seguendo una linea orizzontale, fissò la lanterna all’estremità di un remo, e lo fece muovere di nuovo su e giù per la parete basaltica, ma più in alto.

Là, da alcune fessure appena visibili, attraverso i prismi mal connessi, traspirava un fumo acre, che infettava l’atmosfera della caverna. Delle fratture solcavano la muraglia e alcune di esse, più nettamente visibili, s’abbassavano sino a due o tre piedi soltanto dalle acque della cripta.

Cyrus Smith rimase a tutta prima pensieroso. Poi mormorò ancora queste parole:

«Sì! il capitano aveva ragione! Il pericolo è qui, ed è un pericolo terribile! Ayrton non disse nulla, ma, a un segno di Cyrus Smith, riprese i remi e dopo una mezz’ora usciva, assieme all’ingegnere, dalla cripta Dakkar.»

CAPITOLO XIX

CYRUS SMITH RACCONTA LA SUA ESPLORAZIONE «VENGONO INTENSIFICATI I LAVORI DI COSTRUZIONE» UN’ULTIMA VISITA AL RECINTO «BATTAGLIA TRA IL FUOCO E L’ACQUA» CIÒ CHE RIMANE SULLA SUPERFICIE DELL’ISOLA «SI DECIDE DI VARARE LA NAVE» LA NOTTE DALL’8 AL 9 MARZO

LA MATTINA seguente, 8 gennaio, dopo un giorno e una notte passati al recinto, e aver lasciato tutto in ordine, Cyrus Smith e Ayrton tornarono a GraniteHouse.

Tosto l’ingegnere adunò i compagni e comunicò loro che l’isola di Lincoln correva un grandissimo pericolo, che nessuna potenza umana poteva scongiurare.

«Amici miei,» disse, e la sua voce tradiva un’emozione profonda «l’isola di Lincoln non è di quelle destinate a durare quanto il globo. È votata a una distruzione più o meno prossima, la cui causa è nell’isola stessa, e nulla potrà sottrarla al suo destino.»

I coloni si guardarono e guardarono l’ingegnere. Non potevano seguirlo.

«Spiegatevi, Cyrus!» disse Gedeon Spilett.

«Mi spiego,» rispose Cyrus Smith «o, piuttosto, non farò che trasmettervi la spiegazione che, durante i nostri pochi minuti di colloquio segreto, mi fu data dal capitano Nemo.»

«Il capitano Nemo!» esclamarono i coloni.

«Sì, è l’ultimo servigio che ha voluto renderci, prima di morire!»

«L’ultimo servigio!» esclamò Pencroff. «L’ultimo servigio! Vedrete, che, anche da morto, ce ne renderà ancora degli altri!»

«Ma che cosa vi ha detto il capitano Nemo?» chiese il cronista.

«Sappiatelo, dunque, amici» rispose l’ingegnere. «L’isola di Lincoln non è nelle condizioni in cui si trovano le altre isole del Pacifico, e una conformazione particolare, che il capitano Nemo mi ha fatto conoscere, condurrà, presto o tardi, allo smembramento della sua struttura sottomarina.»

«Uno smembramento! L’isola di Lincoln! Andiamo, dunque!» esclamò Pencroff, che, malgrado tutto il rispetto per Cyrus Smith, non poté trattenersi dall’alzare le spalle.

«Ascoltatemi, Pencroff» riprese l’ingegnere. «Ecco quanto aveva constatato il capitano Nemo e quello che ho constatato io stesso, ieri, durante l’esplorazione da me fatta alla cripta Dakkar. Questa cripta si prolunga sotto l’isola fino al vulcano e soltanto la sua parete di fondo la separa dal camino centrale. Ora, questa parete è solcata da fratture e da fessure, che lasciano già passare i gas solforosi dall’interno del vulcano.»

«Ebbene?» domandò Pencroff, corrugando fortemente la fronte.

«Ebbene, mi sono reso conto che quelle fratture vanno gradatamente ingrandendosi sotto la pressione interna, che la muraglia di basalto si spacca a poco a poco e che, in un tempo più o meno breve, essa lascerà via libera alle acque del mare, di cui è piena la caverna.»

«Bene!» replicò Pencroff, tentando ancora una volta di scherzare. «Il mare spegnerà il vulcano e tutto sarà finito!»

«Sì, tutto sarà finito!» rispose Cyrus Smith. «Il giorno in cui il mare si precipiterà attraverso la parete e penetrerà per il camino centrale, fin nelle viscere dell’isola, ove bollono le materie eruttive, quel giorno, Pencroff, l’isola di Lincoln salterà, come salterebbe la Sicilia, se il Mediterraneo si precipitasse nell’Etna!»

I coloni non risposero a quelle parole, così crudamente chiare dell’ingegnere. Avevano capito quale pericolo li minacciava.

Infatti, Cyrus Smith non esagerava in alcun modo. Molti ebbero già l’idea che sarebbe forse stato possibile spegnere i vulcani, i quali si elevano quasi tutti in riva al mare o ai laghi, aprendo un passaggio alle acque. Ma non sapevano che avrebbero così corso il rischio di far saltare una parte del globo, come una caldaia il cui vapore salga improvvisamente di pressione per effetto di un eccesso di fuoco. L’acqua, precipitandosi in un ambiente chiuso, la cui temperatura può essere valutata a migliaia di gradi, evaporerebbe con una così subitanea energia, che nessun involucro potrebbe resistere.

Non c’era dubbio, dunque, che l’isola, minacciata da uno sconvolgimento spaventevole e prossimo, sarebbe durata solo finché fosse durata la parete della cripta Dakkar. Quindi, non era nemmeno questione di mesi, né di settimane, ma era questione di giorni, di ore, forse!

Il primo sentimento dei coloni fu un dolore profondo! Essi non pensarono al pericolo che li minacciava direttamente, ma alla distruzione di quel suolo, che aveva dato loro asilo, di quell’isola che avevano fecondato, che amavano e che avrebbero voluto rendere fiorentissima. Tante fatiche inutilmente spese, tanto lavoro perduto!

Pencroff non poté trattenere una grossa lacrima, che scivolò lungo la sua guancia, e che egli non cercò nemmeno di nascondere.

La conversazione continuò ancora per qualche tempo. Furono esaminate tutte le probabilità su cui i coloni potevano ancora far assegnamento; ma, per concludere, tutti riconobbero che non c’era un’ora da perdere, e che la costruzione e l’allestimento della nave dovevano essere accelerati con una prodigiosa attività, poiché in essa, ormai, stava la sola probabilità di salvezza per gli abitanti dell’isola di Lincoln!

Tutte le braccia furono dunque mobilitate. A che cosa avrebbe servito oramai mietere, raccogliere, cacciare, accrescere le riserve di GraniteHouse? Ciò che contenevano ancora il magazzino e le dispense di GraniteHouse sarebbe stato più che sufficiente ad approvvigionare il bastimento per una traversata, per quanto lunga. L’indispensabile era che potesse essere a disposizione dei coloni prima che si verificasse l’inevitabile catastrofe.