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Alle otto Nab non era ancora ricomparso; adesso, però, si poteva ammettere che soltanto quel tempo spaventevole gli aveva impedito di tornare, e che aveva dovuto cercare rifugio in qualche cavità, per attendere la fine della bufera o per lo meno il sorgere del nuovo giorno. Quanto ad andargli incontro per tentare di ritrovarlo, era impossibile.

La selvaggina costituì l’unico piatto della cena. Mangiarono volentieri quella carne eccellente. Pencroff e Harbert, ai quali la lunga escursione aveva stuzzicato l’appetito, la divorarono addirittura.

Poi, ciascuno si ritirò nell’angolo dove aveva già riposato la notte precedente, e Harbert non tardò ad addormentarsi accanto al marinaio, che s’era steso lungo il focolare.

Fuori, con l’avanzar della notte, la tempesta prendeva proporzioni formidabili. Era un uragano di vento paragonabile a quello che aveva trasportato i prigionieri da Richmond fino a quella terra del Pacifico. Tempeste frequenti durante la stagione dell’equinozio, che provocano catastrofi, terribili soprattutto su quelle zone vaste, che non oppongono ostacoli alla loro furia! Si comprende, dunque, come una costa così esposta all’est, cioè direttamente ai colpi dell’uragano, e sferzata in pieno dal vento, fosse battuta con una forza di cui nessuna descrizione può dare un’idea esatta.

Fortunatamente l’ammasso di rocce che formava i Camini era solido. Erano enormi blocchi di granito, alcuni dei quali, però, insufficientemente equilibrati, sembravano tremare sulla loro base. Pencroff lo sentiva, e la sua mano, appoggiata alle pareti, era percorsa da forti fremiti. Ma alla fine egli si ripeteva, e con ragione, che non c’era niente da temere e che il suo improvvisato rifugio non sarebbe crollato. Tuttavia, sentiva il rumore delle pietre che, divelte dalla sommità dell’altopiano e prese nei vortici del vento, cadevano sull’arenile. Alcune rotolavano anche sulla parte superiore dei Camini, o vi volavano in schegge, quando erano proiettate perpendicolarmente. Due volte il marinaio si alzò e si arrampicò fino all’apertura del camino, allo scopo di osservare al di fuori; ma quei franamenti, poco considerevoli, non costituivano alcun pericolo, ed egli riprese il suo posto davanti al focolare, dove la brace crepitava sotto la cenere.

Malgrado i furori dell’uragano, il frastuono della tempesta e dei tuoni, Harbert dormiva profondamente. Il sonno finì per impadronirsi anche di Pencroff, che la vita di marinaio aveva abituato a tutte quelle violenze della natura. Solo Gedeon Spilett era tenuto sveglio dall’inquietudine. Si rimproverava di non aver accompagnato Nab. Come abbiamo visto, egli nutriva ancora qualche speranza. I presentimenti da cui era agitato Harbert continuavano ad agitare anche Spilett. Pensava sempre a Nab. Perché Nab non era tornato? Egli si rigirava sul suo letto di sabbia, concedendo appena una vaga attenzione a tutta quella lotta degli elementi. Talvolta, i suoi occhi, appesantiti dalla stanchezza, si chiudevano un momento, ma il lampo di un pensiero li faceva riaprire quasi subito.

Intanto, la notte progrediva, e potevano essere le due del mattino, quando Pencroff, allora profondamente addormentato, fu scosso vigorosamente.

«Che cosa c’è?» esclamò, svegliandosi e riprendendo il filo delle sue idee con la prontezza particolare della gente di mare.

Il giornalista era chino su di lui e gli diceva:

«Ascoltate, Pencroff, ascoltate!»

Il marinaio tese l’orecchio, ma non distinse alcun rumore, all’infuori di quello delle raffiche.

«È il vento» disse.

«No,» rispose Gedeon Spilett, ponendosi nuovamente in ascolto «mi è sembrato di udire…»

«Che cosa?»

«Abbaiare un cane!»

«Un cane!» gridò Pencroff, e si alzò di colpo.

«Sì… dei latrati…»

«Non è possibile!» rispose il marinaio. «E, d’altronde, con il mugghiare della tempesta…»

«Ecco… ascoltate!…» disse il giornalista.

Pencroff ascoltò più attentamente, e credette, infatti, in un istante di tregua della bufera, di sentire dei latrati lontani.

«Ebbene?…» disse il cronista, stringendo la mano del marinaio.

«Sì… Sì!» rispose Pencroff.

«È Top! È Top!…» gridò Harbert, che s’era appena svegliato, e tutti e tre si slanciarono verso l’apertura dei Camini.

Fecero molta fatica a uscirne. Il vento li respingeva; ma alla fine vi riuscirono, e poterono tenersi in piedi solo appoggiandosi contro le rocce. Guardarono, ma non potevano parlare.

L’oscurità era assoluta. Il mare, il cielo, la terra, si confondevano in una tenebra d’uniforme intensità. Pareva che non vi fosse un atomo di luce diffuso nell’atmosfera.

Per alcuni minuti, il giornalista e i suoi due compagni restarono così, come disorientati dalla raffica, inzuppati dalla pioggia, accecati dalla sabbia. Poi, sentirono ancora una volta quei latrati in una sosta della bufera, e constatarono che dovevano provenire da assai lontano.

Non poteva essere che Top ad abbaiare così! Ma era solo o accompagnato? Era più probabile che fosse solo, giacché, ammettendo che Nab fosse con lui, si sarebbe diretto in tutta fretta verso i Camini.

Il marinaio strinse la mano del giornalista, che non poteva udirlo, in un modo che significava: «Aspettate!» poi rientrò nel corridoio.

Un istante dopo, ne tornò fuori con un fastello acceso, e lo proiettò nelle tenebre, emettendo acuti fischi.

A quel segnale, che sembrava atteso, risposero dei latrati più vicini e poco dopo un cane si precipitò nel Camino. Pencroff, Harbert e Spilett vi rientrarono dopo di lui.

Una bracciata di legna secca fu gettata sui carboni. Il corridoio si illuminò di una viva fiamma.

«È Top!» gridò Harbert.

Era Top, infatti, un magnifico anglonormanno, che aveva di queste due razze incrociate la sveltezza delle gambe e la finezza dell’odorato, le due qualità per eccellenza del cane da corsa.

Era il cane dell’ingegnere Cyrus Smith.

Ma era solo! Né il suo padrone, né Nab lo accompagnavano!

Ma, come aveva potuto il suo istinto condurlo fino ai Camini, che non conosceva? Questo pareva inesplicabile, soprattutto nel cuore di quella notte buia e con una simile tempesta! Ma, particolare anche più inspiegabile, Top non era sfinito né stanco, e nemmeno imbrattato di fango o di sabbia!…

Harbert l’aveva attirato a sé e gli stringeva la testa fra le mani. Il cane lasciava fare e strofinava il collo sulle mani del ragazzo.

«Ritrovato il cane, si ritroverà anche il padrone!» disse il giornalista.

«Dio lo voglia!» rispose Harbert. «Andiamo! Top ci guiderà. Pencroff non fece obiezioni. Egli capiva che l’arrivo di Top poteva dare una smentita alle sue congetture.»

«In cammino!» disse.

Pencroff ricoperse con cura i carboni del focolare. Mise qualche pezzo di legna sotto la cenere, in modo da poter ritrovare del fuoco al ritorno; poi, preceduto dal cane, che sembrava invitarlo a uscire con piccoli latrati, e seguito dal cronista e dal giovinetto, si slanciò fuori, dopo aver preso i resti della cena.

La tempesta si scatenava allora in tutta la sua violenza, ed era forse al massimo della sua intensità. La luna, nuova allora, e, per conseguenza, in congiunzione con il sole, non lasciava filtrare la minima luce attraverso le nubi. Seguire una via rettilinea era difficile. Meglio era rimettersi all’istinto di Top. Così fu fatto. Il giornalista e il ragazzo camminavano dietro il cane e il marinaio chiudeva la marcia. Non sarebbe stato possibile scambiarsi parole. La pioggia non cadeva molto abbondante, perché si polverizzava al soffio dell’uragano; ma l’uragano era terribile.

Tuttavia, una circostanza favorì molto felicemente il marinaio e i suoi due compagni. Infatti, il vento soffiava da sudest e, conseguentemente, li spingeva alle spalle. Quella sabbia che il vento proiettava violentemente e che non sarebbe stata sopportabile, essi la ricevevano a tergo, e non voltandosi, non potevano esserne molestati in modo da averne ostacolata la marcia. Insomma, procedevano, a tratti, più presto di quanto volessero e affrettavano il passo per non essere rovesciati; ma un’immensa speranza raddoppiava le loro forze; e questa volta non risalivano più la spiaggia alla ventura. Erano certi che Nab aveva ritrovato il padrone, e che egli aveva loro mandato il cane fedele. Ma l’ingegnere era vivo, oppure Nab mandava a cercare i compagni soltanto per rendere l’estremo omaggio al cadavere dello sventurato Smith?