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Dopo aver oltrepassato le falde del pianoro, da cui s’erano prudentemente allontanati, Harbert, il giornalista e Pencroff si fermarono per riprendere fiato. La sporgenza della roccia li proteggeva contro il vento, ed essi respirarono un poco, dopo quella marcia d’un quarto d’ora, ch’era stata piuttosto una corsa.

In quel momento potevano ascoltarsi a vicenda e rispondersi; e il ragazzo avendo pronunciato il nome di Cyrus Smith, Top emise dei piccoli latrati, come se avesse voluto dire che il suo padrone era salvo.

«Salvo, vero?» ripeteva Harbert «Salvo, Top?»

E il cane abbaiava, come per rispondere.

Ripresero il cammino. Erano circa le due e mezzo del mattino. La marea cominciava a salire, e, spinta dal vento, minacciava di essere molto forte. Era una marea sizigiale. Le grandi onde battevano contro la scogliera e s’infrangevano con tanta violenza, che, molto probabilmente, dovevano arrivare, in altezza, al di sopra dell’isolotto, allora assolutamente invisibile. La lunga diga di scogli non riparava dunque più la costa, che era esposta direttamente agli urti provenienti dal largo.

Da quando il marinaio e i suoi compagni si erano staccati dalla sporgenza rocciosa, il vento li aveva nuovamente investiti, con estrema furia. Curvi, tendendo la schiena alla raffica, camminavano molto rapidamente, seguendo Top, che non esitava sulla direzione da prendere. Risalivano a nord, avendo alla destra una interminabile cresta d’onde, che si accavallavano con fragore assordante, e alla sinistra una zona oscura, di cui era impossibile scorgere l’aspetto. Ma sentivano ch’essa doveva essere relativamente piana, poiché l’uragano passava adesso al disopra di essi senza prenderli di rimbalzo, come invece accadeva quando percuoteva la muraglia di granito.

Alle quattro del mattino si poteva calcolare di avere percorso una distanza di cinque miglia. Le nubi si erano alquanto sollevate e non strisciavano più sul suolo. La raffica, meno umida adesso, si allargava in correnti d’aria molto pungenti, più secche e più fredde di prima. Non abbastanza protetti dai loro vestiti, Pencroff, Harbert e il giornalista dovevano soffrire crudelmente, ma non un lamento sfuggiva dalle loro labbra. Erano decisi a seguire Top fin dove l’intelligente animale voleva condurli.

Verso le cinque, cominciò a farsi un po’ di luce. Allo zenit dapprima, dove i vapori erano meno densi, alcune sfumature grigiastre tagliarono l’orlo delle nubi, e subito dopo, sotto una fascia opaca, un tratto più luminoso disegnò nettamente l’orizzonte del mare. La cresta delle onde si punteggiò leggermente di bagliori fulvi, e la schiuma si rifece bianca. Contemporaneamente, a sinistra, le parti accidentate del litorale cominciavano a delinearsi confusamente, ma non era ancora che del grigio sul nero.

Alle sei del mattino era giorno fatto. Le nuvole correvano con rapidità estrema in una zona relativamente alta. Il marinaio e i suoi compagni si trovavano allora a circa sei miglia dai Camini. Andavano lungo un arenile molto pianeggiante, orlato al largo da una fila di rocce, di cui emergevano solo le cime perché si era al massimo della marea. A sinistra, una vasta distesa uguale, interrotta da alcune dune irte di cardi, offriva l’aspetto abbastanza selvaggio di un’ampia regione sabbiosa. Il litorale era poco frastagliato e non offriva all’oceano altra barriera che una catena assai irregolare di monticelli. Qua e là, uno o due alberi si contorcevano, piegati verso ovest, con i rami tesi in quella direzione. Molto indietro, a sudovest, si stendeva il margine dell’ultima foresta.

A quel punto Top diede segni assai palesi di agitazione. Andava avanti, ritornava verso il marinaio e sembrava volerlo obbligare ad affrettare il passo. Il cane aveva allora lasciato la spiaggia, e, spinto dal suo mirabile istinto, senza la più piccola esitazione, s’era cacciato in mezzo alle dune.

Lo seguirono. Il luogo pareva assolutamente deserto. Non un essere vivente lo animava.

La vasta distesa di dune era costituita di monticelli, e anche di colline, distribuite molto bizzarramente. Era come una piccola Svizzera di sabbia e occorreva proprio un istinto prodigioso per potervisi orizzontare.

Cinque minuti dopo aver lasciato l’arenile, il giornalista e i suoi compagni arrivavano davanti a una specie di grotta scavata nella parte posteriore di un’alta duna. Là, Top si fermò e lanciò un latrato alto e forte. Spilett, Harbert e Pencroff penetrarono in quella grotta.

Nab era là, inginocchiato vicino a un corpo disteso su di un letto d’erbe…

Il corpo era quello dell’ingegnere Cyrus Smith.

CAPITOLO VIII

CYRUS SMITH È VIVO? «IL RACCONTO DI NAB» LE IMPRONTE DI PASSI «UNA QUESTIONE INSOLUBILE» LE PRIME PAROLE DI CYRUS SMITH «LA CONSTATAZIONE DELLE IMPRONTE» IL RITORNO AI CAMINI «PENCROFF ATTERRATO!»

NAB NON SI mosse. Il marinaio gli disse una sola parola.

«Vivo?»

Nab non rispose. Gedeon Spilett e Pencroff impallidirono. Harbert giunse le mani e restò immobile. Ma era evidente che il povero negro, assorto nel suo dolore, non aveva visto i compagni, né sentito la domanda del marinaio.

Il giornalista s’inginocchiò vicino a quel corpo immoto, e posò l’orecchio sul petto dell’ingegnere, dopo avergli aperte le vesti. Un minuto — un secolo! trascorse, mentre egli cercava di sorprendere qualche battito del cuore.

Nab s’era sollevato un poco e guardava, ma senza vedere. La disperazione non avrebbe potuto alterare maggiormente un viso d’uomo. Nab era irriconoscibile, estenuato dalla fatica, spezzato dal dolore. Egli credeva il suo padrone morto.

Gedeon Spilett, dopo una lunga e attenta osservazione, si rialzò.

«Vive!» disse.

Pencroff, a sua volta, si mise in ginocchio vicino a Cyrus Smith; anche il suo orecchio afferrò qualche battito, e le sue labbra qualche soffio, che sfuggiva dalla bocca dell’ingegnere.

Harbert, a una parola del giornalista, si slanciò fuori per cercare dell’acqua. A cento passi di là trovò un ruscello limpido, evidentemente molto ingrossato dalle piogge della notte precedente, che filtrava attraverso la sabbia. Ma non aveva nulla per mettervi l’acqua; non v’era nemmeno una conchiglia fra quelle dune! Il ragazzo dovette accontentarsi d’inzuppare il fazzoletto nel ruscello, e ritornò correndo verso la grotta.

Fortunatamente, quel fazzoletto imbevuto bastò a Gedeon Spilett, che voleva soltanto inumidire le labbra dell’ingegnere. Quelle poche gocce d’acqua fresca produssero un effetto quasi immediato. Un sospiro sfuggì dalle labbra di Cyrus Smith, e parve ch’egli tentasse di articolare alcune parole.

«Lo salveremo!» disse il giornalista.

Nab aveva ripreso speranza a queste parole. Spogliò il suo padrone, per vedere se il corpo presentasse qualche ferita. Né la testa, né il busto, né le membra avevano contusioni, e nemmeno scorticature: cosa sorprendente, poiché il corpo di Cyrus Smith era stato di certo sbattuto sugli scogli. Persino le mani erano intatte. Era veramente difficile spiegare come l’ingegnere non portasse alcuna traccia degli sforzi, che aveva dovuto fare per oltrepassare la linea di scogli.

Ma la spiegazione di questa circostanza sarebbe venuta più tardi. Quando Cyrus Smith avrebbe potuto parlare, avrebbe detto ciò che era avvenuto. Per il momento, si trattava di richiamarlo in vita: forse un po’ di massaggio poteva ottenere questo risultato. E il massaggio fu fatto con la casacca del marinaio. L’ingegnere, riscaldato da quel rude massaggio, mosse lievemente le braccia e la sua respirazione cominciò ad avvenire in modo più regolare. Egli stava morendo di sfinimento, e, certo, senza l’arrivo del giornalista e dei suoi compagni, sarebbe stata la fine per Cyrus Smith.