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CAPITOLO IX

CYRUS È CON NOI! «I TENTATIVI DI PENCROFF» IL LEGNO STROFINATO «ISOLA O CONTINENTE?» I PROGETTI DELL’INGEGNERE «SU QUALE PUNTO DELL’OCEANO PACIFICO?» IN PIENA FORESTA «IL PINO PINAIOLO» UNA CACCIA AL CAPIBARA «UN FUMO DI BUON AUGURIO»

IN POCHE PAROLE, Gedeon Spilett, Harbert e Nab furono messi al corrente della situazione. Quella disgrazia, che poteva avere conseguenze gravissime (Pencroff, per lo meno, la pensava così) produsse effetti diversi sui compagni del buon marinaio.

Nab, tutto preso dalla gioia di aver ritrovato il suo padrone, non ascoltò, o piuttosto non volle nemmeno preoccuparsi di quel che diceva Pencroff.

Harbert, invece, parve dividere in certa misura le apprensioni del marinaio.

Il giornalista, alle parole di Pencroff, rispose semplicemente: «In fede mia, Pencroff, non me ne importa niente!»

«Ma, vi ripeto che non abbiamo più fuoco!»

«Peuh!»

«Né alcun mezzo per riaccenderlo!»

«Ohibò!»

«Però, signor Spilett…»

«Cyrus non è forse con noi?» rispose il cronista. «Forse che non è vivo, il nostro ingegnere? Troverà bene il modo di accendere il fuoco, lui!»

«E con che cosa?»

«Con niente.»

Che cosa avrebbe potuto rispondere Pencroff? Non avrebbe potuto, giacché, in fondo, condivideva la fiducia che i suoi compagni avevano in Cyrus Smith. L’ingegnere era per essi un microcosmo, un composto di tutta la scienza e di tutta l’intelligenza umana! Tanto valeva trovarsi con Cyrus in un’isola deserta, quanto senza Cyrus nella più industriosa città dell’Unione. Con lui non sarebbe mancato niente. Con lui, non si poteva disperare. Si sarebbe potuto dire a queste brave persone che un’eruzione vulcanica stava per annientare quella terra, che quella terra stava per sprofondare negli abissi del Pacifico, ed essi avrebbero risposto imperturbati: «Cyrus è con noi! Seguite Cyrus!»

Intanto, l’ingegnere era piombato in un nuovo stato di prostrazione, cagionato dal disagio del trasporto, e in quel momento non si poteva ricorrere alla sua ingegnosità. La cena doveva forzatamente essere magrissima. Infatti, tutta la carne di tetraone era stata consumata e non si aveva alcun mezzo per far cuocere della selvaggina. D’altronde, i curucù, che dovevano servire di riserva, erano scomparsi. Bisognava prenderne atto.

Prima di tutto, Cyrus Smith fu trasportato nel corridoio centrale. Là si poté preparargli un giaciglio d’alghe e di erbe, rimaste quasi asciutte. Il profondo sonno che s’era impadronito di lui non poteva che reintegrare rapidamente le sue forze, ancor meglio, senza dubbio, che un cibo abbondante.

La notte era venuta e con essa la temperatura, modificata da un salto di vento girato, si raffreddò seriamente. Ora, siccome il mare aveva distrutto i ripari applicati da Pencroff in alcuni punti dei corridoi, si produssero delle correnti d’aria, che resero i Camini poco abitabili. L’ingegnere si sarebbe, quindi, trovato in condizioni pessime, se i suoi compagni, spogliandosi delle loro giacche, non l’avessero accuratamente coperto.

La cena quella sera fu composta soltanto dagli inevitabili litodomi, di cui Harbert e Nab fecero ampia raccolta sul greto. Però, il ragazzo aggiunse a quei molluschi una certa quantità di alghe commestibili, che raccolse su scogli emergenti, di cui il mare non doveva bagnare le pareti che all’epoca delle grandi maree. Quelle alghe, appartenenti alla famiglia delle fucacee, erano una specie di sargassi che, asciutti, forniscono una materia gelatinosa, abbastanza ricca di elementi nutritivi. Il giornalista e i suoi compagni, dopo avere mangiato una quantità considerevole di litodomi, succhiarono anche questi sargassi, trovandoli di un sapore tollerabilissimo: bisogna dire, a questo proposito, che sulle coste asiatiche simili vegetali hanno una parte notevole nell’alimentazione degli indigeni.

«Bene» disse il marinaio. «È ormai tempo che il signor Cyrus ci venga in aiuto.»

Intanto, il freddo si era fatto intenso, e, disgraziatamente, non c’era nessun modo di combatterlo.

Il marinaio, veramente contrariato, cercò di accendere il fuoco con tutti i mezzi possibili. Nab lo aiutò in quest’operazione: aveva trovato alcuni muschi secchi, e, battendo due sassi, ottenne delle scintille; ma il muschio, non essendo abbastanza infiammabile, non prese fuoco, e d’altronde, le scintille, che non erano che silice incandescente, non avevano la consistenza di quelle che sprizzano dall’acciarino. L’operazione, quindi, non riuscì.

Pencroff, benché non avesse alcuna fiducia in questo metodo, provò poi a sfregare due pezzi di legno secco uno contro l’altro, alla maniera dei selvaggi. Certamente, se il moto che fecero, Nab e lui, si fosse — secondo le nuove teorie — trasformato in calore, sarebbe bastato a far bollire una caldaia da piroscafo! Ma il risultato fu negativo. I pezzi di legno si riscaldarono semplicemente, e forse assai meno degli uomini stessi.

Dopo un’ora di lavoro, Pencroff, grondante di sudore, gettò via i pezzi di legno, indispettito.

«Quando mi si convincerà che i selvaggi accendono il fuoco in questo modo,» diss’egli «farà caldo anche d’inverno! Si accenderebbero piuttosto le mie braccia, sfregandole insieme!»

Il marinaio aveva torto nel negare quel procedimento. È noto che i selvaggi accendono il legno per mezzo di un rapido sfregamento. Ma non tutte le qualità di legno sono adatte a questa operazione, e poi, bisogna conoscere il segreto del mestiere, e probabilmente Pencroff non lo conosceva.

Il cattivo umore di Pencroff non durò a lungo. I due pezzi di legno gettati via da lui erano stati ripresi da Harbert, che s’ingegnava a strofinarli con la massima buona volontà. Il robusto marinaio non poté frenare uno scoppio di risa, vedendo gli sforzi dell’adolescente per riuscire là dove nemmeno lui era riuscito.

«Frega, ragazzo mio, frega!» disse.

«Frego,» rispose Harbert, ridendo; «ma non ho altra pretesa che di scaldarmi a mia volta, invece che tremare di freddo; e fra poco anch’io avrò caldo come te, Pencroff!»

E questo accadde, infatti. Per quella notte, bisognò rinunciare ad accendere il fuoco. Gedeon Spilett ripeté per la ventesima volta che Cyrus Smith non si sarebbe trovato imbarazzato per così poco. E in attesa del risveglio dell’ingegnere, si stese su di un letto di sabbia, in uno dei corridoi. Harbert, Nab e Pencroff lo imitarono, mentre Top dormiva ai piedi del suo padrone.

L’indomani, 28 marzo, quando l’ingegnere si svegliò, verso le otto del mattino, vide i suoi compagni presso di lui, che spiavano il suo risveglio; e, come il giorno precedente, le sue prime parole furono:

«Isola o continente?»

Come si vede, era la sua idea fissa.

«Bene!» rispose Pencroff «non ne sappiamo niente, signor Smith!»

«Non lo sapete ancora?…»

«Ma lo sapremo quando voi ci avrete guidati in questo paese.»

«Credo di essere in grado di tentarlo» rispose l’ingegnere, che, senza troppo sforzo, si alzò e si tenne in piedi.

«Ecco, andiamo bene!» esclamò il marinaio.

«Morivo soprattutto di sfinimento» disse Cyrus Smith. «Amici miei, un po’ di cibo, e tutto passerà. Avete fuoco, vero?»

Questa domanda non ebbe risposta immediata. Ma, dopo alcuni minuti:

«Ahimè! Non abbiamo fuoco,» disse Pencroff «o piuttosto, signor Cyrus, non ne abbiamo più!»

E il marinaio narrò quanto era accaduto il giorno prima. Diverti l’ingegnere raccontandogli la storia del loro unico fiammifero, e poi il suo vano tentativo per accendere il fuoco secondo l’usanza dei selvaggi.

«Provvederemo» rispose l’ingegnere «e se non troveremo una sostanza analoga all’esca…»

«Ebbene?» domandò il marinaio.

«Ebbene, faremo dei fiammiferi.»

«Chimici?»