Выбрать главу

«Chimici!»

«Non è poi così difficile» esclamò il giornalista, battendo la mano sulla spalla del marinaio.

Questi non trovava la cosa tanto semplice, però non protestò. Tutti uscirono. Il tempo si era rimesso al bello. Un sole sfolgorante si levava sull’orizzonte del mare e cospargeva di pagliuzze d’oro le asperità prismatiche dell’enorme muraglia.

Dopo aver gettato un rapido sguardo intorno a sé, l’ingegnere si sedette su di un blocco di roccia. Harbert gli offrì alcune manciate di conchiglie e di sargassi, dicendo:

«È tutto quello che abbiamo, signor Cyrus.»

«Grazie, ragazzo mio,» rispose Smith «questo basterà, per stamane, almeno.»

E mangiò con appetito quel modesto cibo, che inaffiò con un po’ d’acqua fresca, attinta al fiume, in una grande conchiglia.

I suoi compagni lo guardavano silenziosi. Poi, dopo essersi così saziato alla meglio, Cyrus Smith, incrociando le braccia, disse:

«E così, amici miei, voi non sapete ancora se la sorte ci ha gettati su di un continente o su di un’isola?»

«No, signor Cyrus» rispose il ragazzo.

«Lo sapremo domani» replicò l’ingegnere. «Fino ad allora non c’è niente da fare.»

«E invece sì» ribatté Pencroff.

«Che cosa, dunque?»

«Accendere il fuoco» disse il marinaio, che aveva, anche lui, la sua brava idea fissa.

«Lo accenderemo, Pencroff» rispose Cyrus Smith. «Ma» riprese, «mentre voi mi trasportavate, ieri, ho scorto, a ovest, una montagna che domina questa località.»

«Sì,» rispose Gedeon Spilett «una montagna che dev’essere abbastanza alta…»

«Bene,» riprese l’ingegnere «domani saliremo sulla sua cima e vedremo se questa terra è un’isola o un continente. Fino ad allora, ripeto, niente da fare.»

«Sì, accendere il fuoco!» disse ancora l’ostinato marinaio.

«Ma lo accenderemo, il fuoco!» replicò Gedeon Spilett. «Un po’ di pazienza, Pencroff!»

Il marinaio guardò Spilett con un’aria che pareva dire: «Se non ci siete che voi a farlo, non gusteremo dell’arrosto tanto presto!». Ma tacque.

Cyrus Smith non aveva risposto. Egli sembrava assai poco preoccupato del problema del fuoco. Per alcuni minuti rimase assorto nelle sue riflessioni. Poi, riprendendo la parola:

«Amici miei,» disse «la nostra situazione è forse spiacevole, ma, in ogni modo, è molto semplice. O siamo su di un continente, e allora, a prezzo di fatiche più o meno grandi, raggiungeremo qualche punto abitato; oppure siamo su di un’isola. In quest’ultimo caso, delle due una: se l’isola è abitata, riusciremo a trarci d’impaccio con l’ausilio dei suoi abitanti; se è deserta, ce la caveremo da soli.»

«Sicuro, non c’è nulla di più semplice!» rispose Pencroff.

«Ma, che si tratti di un continente o di un’isola,» domandò Gedeon Spilett «dove supponete, Cyrus, che l’uragano ci abbia gettati?»

«Non posso saperlo esattamente,» rispose l’ingegnere «ma suppongo trattarsi di una terra del Pacifico. Infatti, quando abbiamo lasciato Richmond, il vento soffiava da nordest, e anche adesso la sua violenza stessa prova che non ha variato direzione. Se questa direzione s’è mantenuta da nordest a sudovest, noi abbiamo attraversato gli stati della Carolina del Nord, della Carolina del Sud, della Georgia, il golfo del Messico, il Messico stesso nella sua parte stretta, e poi una parte dell’Oceano Pacifico. Valuto a sei o settemila miglia, non meno, la distanza percorsa dal pallone, e, per poco che il vento abbia girato anche solo di una mezza quarta, ci ha portato o sull’arcipelago di Mendana, o sulle Paumotu, e fors’anche, se aveva una velocità maggiore a quella da me supposta, fino alle terre della NuovaZelanda. Se quest’ultima ipotesi fosse vera, il nostro rimpatrio sarebbe facile. Inglesi o Maori, troveremo sempre a chi parlare. Se, invece, questa costa appartiene a qualche isola deserta di un arcipelago della Micronesia, probabilmente potremo saperlo dall’alto di quella cima che domina il territorio, e allora provvederemo a installarci qui, come se non ne dovessimo uscire mai più!»

«Mai più!» gridò il giornalista. «Voi dite: mai più! mio caro Cyrus?»

«È meglio pensar subito al peggio» rispose l’ingegnere «e riservarsi il meglio solo come sorpresa.»

«Ben detto!» ribatté Pencroff. «E bisogna anche sperare che l’isola, se isola è questa terra, non sia proprio situata fuori dalla rotta delle navi! Altrimenti vorrebbe dire essere proprio disgraziati!»

«Sapremo come regolarci solo dopo aver fatto l’ascensione della montagna» rispose l’ingegnere.

«Ma domani, signor Cyrus,» domandò Harbert «sarete in grado di sopportare le fatiche dell’ascensione?»

«Spero,» rispose l’ingegnere «ma a patto che mastro Pencroff e tu, ragazzo mio, vi mostriate cacciatori intelligenti e accorti.»

«Signor Cyrus,» rispose il marinaio «poiché parlate di selvaggina, se al mio ritorno fossi sicuro di poterla arrostire, come sono sicuro di portarla…»

«Portatela ugualmente, portatela, Pencroff» rispose Cyrus Smith. Fu dunque convenuto che l’ingegnere e il giornalista avrebbero passato la giornata ai Camini allo scopo di esaminare il litorale e l’altipiano sovrastante. Nel frattempo, Nab, Harbert e il marinaio sarebbero ritornati nella foresta, vi avrebbero rinnovato la provvista di legna, e avrebbero fatto man bassa di ogni bestia piumata o pelosa che fosse loro giunta a portata di mano.

Essi partirono, dunque, verso le dieci del mattino, Harbert fiducioso, Nab allegro, Pencroff mormorando fra sé:

«Se al ritorno, trovo del fuoco in casa, vorrà dire che il fulmine in persona sarà venuto ad accenderlo!»

Tutt’e tre risalirono l’argine, e arrivati al gomito che formava il fiume, il marinaio, fermandosi, disse ai suoi due compagni:

«Cominciamo con il fare i cacciatori o i taglialegna?»

«I cacciatori» rispose Harbert. «Ecco Top, già alla ricerca.»

«Cacciamo, dunque,» rispose il marinaio «poi ritorneremo qui a fare la provvista di legna.»

Detto questo, Harbert, Nab e Pencroff, dopo essersi procurati tre bastoni a scapito di un giovane abete, seguirono Top, che saltellava fra le alte erbe.

Questa volta i cacciatori, invece di costeggiare il corso del fiume, si addentrarono più direttamente nel cuore stesso della foresta. Erano sempre gli stessi alberi, appartenenti, per la maggior parte, alla famiglia dei pini. In certi punti questi pini, meno fitti, isolati per gruppi, presentavano dimensioni considerevoli e con il loro notevole sviluppo sembravano indicare che quella terra si trovava a una latitudine più elevata di quanto supponesse l’ingegnere. Alcune radure, irte di ceppi rosi dal tempo, erano coperte di legna secca e formavano così inesauribili riserve di combustibile. Poi, passata la radura, il bosco ceduo si rinfittiva e diveniva quasi impenetrabile.

Procedere in mezzo a quelle folte macchie d’alberi, senza alcun sentiero tracciato, era cosa assai difficile. Perciò il marinaio di tanto in tanto segnava la via percorsa con tracce che dovevano essere facilmente riconoscibili. Ma probabilmente egli aveva avuto torto di non risalire il corso d’acqua, come Harbert e lui avevano fatto durante la loro prima escursione, giacché dopo un’ora di marcia, non s’era ancora vista alcuna specie di selvaggina. Top, correndo sotto le fronde basse, non faceva che metter sull’avviso uccelli che non si potevano avvicinare. Persino i curucù erano del tutto assentì, e appariva quindi probabile che il marinaio sarebbe stato costretto a tornare in quella parte paludosa della foresta, nella quale aveva così felicemente esperimentato la pesca dei tetraoni.

«Eh! Pencroff,» disse Nab con tono un po’ sarcastico «se questa è tutta la selvaggina che avete promesso di portare al mio padrone, non occorrerà un gran fuoco per farla arrostire!»

«Pazienza, Nab,» rispose il marinaio «non sarà la selvaggina che mancherà al ritorno!»