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«Non avete, dunque, fiducia nel signor Smith?»

«Sì.»

«Ma non credete che riuscirà ad accendere il fuoco?»

«Crederò quando la legna arderà sul focolare.»

«Arderà, poiché il mio padrone l’ha detto!»

«Vedremo!.»

Frattanto, non avendo il sole ancora raggiunto il punto più alto del suo tragitto sull’orizzonte, l’esplorazione continuò e divenne più fortunata per la scoperta fatta da Harbert di un albero i cui frutti erano commestibili. Era il pino pinaiolo, che produce una pigna eccellente, molto apprezzata nelle regioni temperate dell’America e dell’Europa. Queste pigne erano mature e Harbert le indicò ai compagni, che ne fecero abbondante provvista.

«Via,» disse Pencroff «alghe al posto del pane, mitili crudi invece di carne, pigne per frutta… Ecco il pranzo di persone che non hanno più un solo fiammifero in tasca!»

«Inutile lagnarsi» rispose Harbert.

«Io non mi lagno, ragazzo mio,» rispose Pencroff «solamente osservo che la carne manca un po’ troppo nei nostri pasti!»

«Non è il parere di Top!» esclamò Nab, che corse verso una folta macchia, in mezzo alla quale il cane era scomparso abbaiando. Ai latrati di Top si mescolavano strani grugniti.

Il marinaio e Harbert avevano seguito Nab. Se là c’era della selvaggina, non era certo quello il momento di discutere sul modo di cucinarla, ma piuttosto sul modo di impadronirsene.

I cacciatori, appena entrati nel bosco, videro Top alle prese con un animale che aveva afferrato per un orecchio. Quel quadrupede era una specie di maiale, lungo due piedi e mezzo circa, di un bruno nerastro, un po’ meno scuro sul ventre, con pelo duro e rado, e le cui unghie, tenacemente piantate nel suolo, sembravano riunite da membrane.

Harbert credette di poter riconoscere in quell’animale un capibara, uno dei maggiori esemplari dell’ordine dei roditori.

L’animale non si difendeva contro il cane: girava stupidamente i grossi occhi affondati in uno spesso strato di grasso. Probabilmente, era la prima volta che vedeva degli uomini.

Frattanto Nab, impugnato più saldamente il bastone, si accingeva a uccidere il roditore, quando questi sfuggendo ai denti di Top, lasciandogli solo un pezzo d’orecchio in bocca, cacciò un rabbioso grugnito, si precipitò su Harbert, per poco non lo fece cadere, e disparve attraverso il bosco.

«Ah! Il miserabile!» esclamò Pencroff.

Subito tutt’e tre si slanciarono sulle tracce di Top, e mentre stavano per raggiungere la preda, l’animale sparì, tuffandosi in un vasto stagno, ombreggiato da grandi pini secolari.

Nab, Harbert e Pencroff si fermarono, immobili. Top s’era gettato in acqua, ma il capibara, nascosto in fondo allo stagno, non si lasciava più vedere.

«Aspettiamo,» disse il giovinetto «la bestia verrà fra poco a respirare in superficie.»

«Non annegherà?» chiese Nab.

«No,» rispose Harbert «ha i piedi palmati ed è quasi un anfibio. Ma appostiamolo.»

Top nuotava sempre. Pencroff e i suoi compagni andarono a occupare ciascuno un punto della riva, allo scopo di tagliare ovunque la ritirata alla bestia, che il cane cercava nuotando alla superficie dello stagno.

Harbert non s’ingannava. Dopo alcuni minuti l’animale tornò a galla. Top d’un balzo fu su di lui e gli impedì di tuffarsi nuovamente. Un istante più tardi il capibara, trascinato da Top fino alla riva, veniva ucciso da una bastonata vibrata da Nab.

«Urrà!» gridò Pencroff, che usava volentieri quel grido di trionfo. «Un po’ di fuoco e questo roditore sarà rosicchiato fino all’osso!»

Pencroff si caricò la preda sulle spalle, e, calcolando dall’altezza del sole che dovevano essere circa le due del pomeriggio, diede il segnale del ritorno.

L’istinto di Top non fu inutile ai cacciatori, che, grazie all’intelligente animale, poterono ritrovare il cammino già percorso. Mezz’ora dopo, arrivavano alla svolta del fiume.

Come avevano fatto la prima volta, Pencroff preparò rapidamente una zattera di legna, benché, mancando il fuoco, quella gli sembrasse un’operazione inutile, e con la zattera che seguiva il corso della corrente, ritornarono verso i Camini.

Ma, a cinquanta passi di distanza dalla dimora, il marinaio si fermò, gettò ancora un formidabile urrà, e tendendo la mano verso la punta della scogliera:

«Harbert! Nab! Guardate!» gridò.

Un filo di fumo usciva in vorticose spire al di sopra delle rocce!

CAPITOLO X

UN’INVENZIONE DELL’INGEGNERE «IL PROBLEMA CHE PREOCCUPA CYRUS SMITH» LA PARTENZA PER LA MONTAGNA «LA FORESTA» SUOLO VULCANICO «I «TRAGOPANI»«I MUFLONI «IL PRIMO ALTIPIANO» L’ACCAMPAMENTO PER LA NOTTE «IL VERTICE DEL CONO»

ALCUNI ISTANTI dopo i tre cacciatori si trovavano davanti a un fuoco scoppiettante, con Cyrus Smith e il giornalista. Pencroff li guardava entrambi, senza articolar parola, con il suo capibara fra le mani.

«Ebbene, sì, mio bravo cacciatore» esclamò il giornalista. «È fuoco, vero fuoco, che arrostirà perfettamente questa magnifica bestia con la quale banchetteremo fra breve!»

«Ma chi l’ha acceso?…» domandò Pencroff.

«Il sole!»

La risposta di Gedeon Spilett era esatta. Il sole aveva fornito il calore di cui Pencroff si meravigliava. Il marinaio non voleva credere ai propri occhi ed era così stupefatto, che non pensava nemmeno a interrogare l’ingegnere.

«Avevate una lente, signore?» domandò Harbert a Cyrus Smith.

«No, ragazzo mio,» rispose questi, «ma ne ho fatta una.»

E mostrò l’apparecchio che gli era servito da lente. Si trattava molto semplicemente dei due vetri che egli aveva tolti all’orologio del giornalista e al proprio. Dopo averli riempiti d’acqua, rendendo aderenti i loro orli con un po’ d’argilla, s’era così fabbricato una vera e propria lente, la quale, concentrando i raggi solari su un po’ di muschio molto secco, ne aveva determinato la combustione.

Il marinaio osservò l’apparecchio, poi guardò l’ingegnere senza pronunciar parola. Ma il suo sguardo era abbastanza eloquente! Per lui, se Cyrus Smith non era un dio, era però sicuramente più di un uomo. Finalmente riacquistò il dono della parola, ed esclamò:

«Segnate questo, signor Spilett, segnate questo nel vostro taccuino!»

«È già segnato» rispose il cronista.

Poi, aiutato da Nab, il marinaio preparò lo spiedo, e il capibara, opportunamente ripulito e vuotato, poco dopo si arrostiva, come un semplice maialino di latte, davanti a una fiamma chiara e crepitante.

I Camini erano ridivenuti più abitabili, non solo perché i loro vani si riscaldavano alla fiamma del focolare, ma anche perché i ripari di pietre e sabbia erano stati ripristinati.

Come si vede, l’ingegnere e il suo compagno avevano impiegato bene la giornata. Cyrus Smith aveva quasi interamente ricuperato le proprie forze, e le aveva, anzi, provate, salendo sul pianoro superiore. Di là, il suo occhio, avvezzo a valutare altezze e distanze, s’era fermato a lungo su quel cono di cui egli voleva l’indomani raggiungere la vetta. Il monte, situato a sei miglia circa di distanza, in direzione di nordovest, gli parve misurare tremilacinquecento piedi sopra il livello del mare. Di conseguenza, lo sguardo di un osservatore dalla vetta di esso doveva poter dominare l’orizzonte per un raggio di almeno cinquanta miglia. Era quindi probabile che Cyrus Smith avrebbe risolto agevolmente il problema del «continente o isola», al quale dava, non senza ragione, la precedenza su tutti gli altri.

Si cenò decentemente. La carne del capibara fu trovata eccellente. I sargassi e le pigne completarono la cena, durante la quale l’ingegnere parlò poco. Egli era preoccupato dei progetti per l’indomani.

Un paio di volte Pencroff espresse alcune idee su quello che sarebbe stato conveniente fare, ma Cyrus Smith, ch’era evidentemente uno spirito metodico, si limitò a scrollare il capo: