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«Domani» ripeteva «sapremo a qual partito appigliarci, e agiremo in conformità.»

Finita la cena, altre bracciate di legna vennero gettate sul fuoco, e gli ospiti dei Camini, compreso il fedele Top, si addormentarono d’un sonno profondo. Nessun incidente turbò quella notte tranquilla, e l’indomani — 29 marzo — essi si svegliarono agili e freschi, pronti a intraprendere l’escursione, che doveva stabilire definitivamente quale fosse la loro sorte.

Tutto era pronto per la partenza. I resti del capibara potevano nutrire ancora per ventiquattro ore Cyrus Smith e i suoi compagni. D’altronde, essi speravano di trovare di che vettovagliarsi anche per via. Siccome i vetri erano stati rimessi agli orologi dell’ingegnere e del giornalista, Pencroff bruciò un frammento di tela, che doveva servire d’esca. Quanto alla selce non poteva mancare in quei terreni di origine plutonica.

Alle sette e mezzo del mattino gli esploratori, armati di bastoni, lasciarono i Camini. Seguendo il consiglio di Pencroff, parve buona idea prender la via già percorsa nella foresta, riserbandosi di tornare per altra strada. Era la strada più diretta per raggiungere la montagna. Fecero, perciò, il giro dell’angolo sud e seguirono la sponda sinistra del fiume, fino al punto in cui s’incurvava verso sudovest. Trovarono il sentiero già aperto tra la verde ramaglia, e alle nove Cyrus Smith e i suoi compagni raggiungevano il limite occidentale della foresta.

Il terreno, fino allora poco accidentato, prima paludoso, poi sabbioso e arido, formava un lieve declivio, che saliva dal litorale verso l’interno della regione. Qualche timido animale fu intravisto mentre fuggiva di gran corsa fra gli alberi d’alto fusto. Top li stanava dai loro nascondigli, ma il padrone lo richiamava subito, non essendo ancora il momento di dar loro la caccia. Più tardi si sarebbe provveduto. L’ingegnere non era uomo da lasciarsi distrarre dalla sua idea fissa. Né si poteva dire ch’egli osservasse il paese, la sua configurazione e i suoi prodotti naturali. Unico suo obiettivo era quel monte su cui voleva salire e verso il quale muoveva sicuro.

Alle dieci, si fece una sosta di pochi minuti. Uscendo dalla foresta, il sistema orografico della regione apparve con evidenza. Il monte aveva due coni. Il primo, troncato a una altezza di duemilacinquecento piedi circa, era sostenuto da capricciosi contrafforti, che parevano ramificarsi, come le unghie di un immenso artiglio attaccato al suolo. Fra questi contrafforti si scavavano altrettante strette vallate, sparse d’alberi, le cui macchie si elevavano fino al sommo del primo cono. Tuttavia, la vegetazione pareva meno abbondante nella parte della montagna esposta a nordest, e vi si scorgevano delle strisce assai profonde, che dovevano essere colate laviche.

Sopra il primo cono ne posava un secondo, leggermente arrotondato alla cima e situato un po’ obliquamente. Si sarebbe detto un ampio cappello rotondo messo sull’orecchio. Esso sembrava formato dalla terra nuda, da cui sbucavano in molti punti rocce rossastre.

Era la sommità di quel secondo cono che conveniva raggiungere, e la cresta dei contrafforti doveva offrire la migliore strada per arrivarvi.

«Siamo su un terreno vulcanico» aveva detto Cyrus Smith; e i suoi compagni, seguendolo, cominciarono ad arrampicarsi sul dorso di un contrafforte, che con una linea tortuosa, e quindi più facilmente valicabile, terminava al primo altipiano.

Le gibbosità del suolo, che le forze plutoniche avevano evidentemente sconvolto, erano numerose. Qua e là si vedevano massi erratici, numerosi frammenti di basalto, pietre pomici, ossidiane. A gruppi isolati, vi si trovavano ancora quelle conifere, che alcune centinaia di piedi più in basso, nel fondo di strette gole, formavano invece folti boschi, quasi impenetrabili ai raggi del sole.

Durante la prima parte dell’ascensione sulle pendici inferiori, Harbert fece notare delle impronte, che indicavano il passaggio recente di grandi animali, feroci o no.

«Quelle bestie forse non ci cederanno troppo volentieri il loro dominio!» disse Pencroff.

«Ebbene,» rispose il giornalista, che aveva già cacciato la tigre nelle Indie e il leone in Africa «vedremo di sbarazzarcene. Ma, intanto, stiamo in guardia!»

Nel frattempo si continuava a salire. Il cammino, allungato da giri viziosi e da ostacoli che non potevano essere superati direttamente, era lungo. Talvolta il terreno mancava improvvisamente e ci si trovava sull’orlo di profondi crepacci, che bisognava aggirare. Tornare così sui propri passi, per seguire qualche passaggio praticabile, costava tempo e fatica. A mezzogiorno, quando la piccola comitiva sostò per far colazione all’ombra di un boschetto di abeti, vicino a un ruscelletto, che formava una cascatella, essa si trovava ancora a mezza via dalla vetta del primo cono, che quindi non sarebbe stato raggiunto, probabilmente, se non al cader della notte.

Da quel luogo, l’orizzonte del mare si ampliava; ma, sulla destra, lo sguardo, impedito dall’acuto promontorio di sudest, non poteva rilevare se la costa si congiungesse, mediante una brusca svolta, a qualche terra più lontana. A sinistra, la vista spaziava si più liberamente per alcune miglia in direzione nord; ma da nordovest al punto in cui si trovavano gli esploratori, essa era nettamente troncata dalla cresta di un contrafforte bizzarramente tagliato, che formava come la vigorosa spalla del cono centrale. Non si poteva, dunque, prevedere ancor nulla circa il problema che Cyrus Smith voleva risolvere.

Alla una, l’ascensione venne ripresa. Bisognò piegare verso sudovest e cacciarsi di nuovo nel ceduo abbastanza folto. All’ombra degli alberi svolazzavano molte coppie di gallinacei della famiglia dei fagiani. Erano dei «tragopani», adorni di bargigli carnosi, che pendevano loro dalla gola, e di due sottili corni cilindrici, piantati dietro gli occhi.

Di queste coppie di volatili, grossi come galli, la femmina era uniformemente bruna, mentre il maschio sfoggiava splendide penne rosse, sparse di goccioline bianche. Gedeon Spilett, con una pietra, vigorosamente e abilmente lanciata, uccise uno di quegli uccelli, che Pencroff, messo in appetito dall’aria sottile, guardò non senza cupidigia.

Finito il bosco ceduo, gli escursionisti, montando l’uno sulle spalle dell’altro, s’inerpicarono per un tratto di cento piedi su per una scarpata ripidissima e raggiunsero uno spiazzo superiore, poco alberato, dove il terreno presentava un aspetto vulcanico. Si trattava di girare a est, procedendo a zigzag, per rendere l’erta più praticabile, giacché essa era in quel punto molto ripida e ognuno doveva attentamente scegliere il punto dove posare il piede. Nab e Harbert procedevano in testa, Pencroff in coda; fra essi Cyrus e il giornalista. Gli animali che frequentavano quelle alture, e di cui non mancavano le tracce, dovevano necessariamente appartenere alla razza dei camosci, dal piede sicuro e dalla schiena flessuosa. Ne furono visti alcuni, ma Pencroff non diede loro quel nome; anzi, a un certo momento, gridò:

«Ecco delle pecore!»

Tutti si fermarono a cinquanta passi da una mezza dozzina di grandi animali, dalle robuste corna curvate all’indietro e schiacciate verso la punta, dal vello lanoso, nascosto sotto lunghi e setosi peli di color fulvo.

Non erano affatto montoni ordinari, ma di un’altra specie, comunemente diffusa nelle regioni montagnose delle zone temperate, alla quale Harbert diede il nome di mufloni.

«Hanno cosciotti e costolette?» domandò il marinaio.

«Sì» rispose Harbert.

«Ebbene, allora sono pecore!» disse Pencroff.

Quegli animali, immobili tra i blocchi di basalto, guardavano con occhio stupito, come se vedessero per la prima volta dei bipedi umani. Poi, improvvisamente invasi dal timore, fuggirono a salti sulle rocce.

«Arrivederci!» gridò loro Pencroff in tono così comico, che Cyrus Smith, Gedeon Spilett, Harbert e Nab non poterono trattenersi dal ridere.

L’ascensione continuò. Si osservavano spesso, su certi declivi, tracce di lave, striate molto bizzarramente. Piccole solfatare tagliavano talvolta la strada agli ascensionisti, che dovevano costeggiarne gli orli. In alcuni punti lo zolfo si era depositato, sotto forma di concrezioni cristalline, in mezzo a quelle materie che precedono generalmente le colate laviche, pozzolane a grani irregolari e intensamente torrefatti, ceneri biancastre, fatte di un’infinità di piccoli cristalli feldspatici.