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In prossimità del primo altipiano, formato dal troncamento del cono inferiore, le difficoltà dell’ascensione si accentuarono molto. Verso le quattro, la zona estrema degli alberi era stata oltrepassata. Non restava più, qua e là, che qualche pino contorto e scarno, che doveva avere la vita ben dura per resistere, a quell’altezza, ai forti venti del mare aperto. Fortunatamente per l’ingegnere e i suoi compagni, il tempo era bello e l’atmosfera tranquilla: un vento impetuoso, a un’altitudine di tremila piedi, avrebbe rallentato i loro movimenti. La purezza del cielo allo zenit si avvertiva attraverso la trasparenza dell’aria. Una calma perfetta regnava intorno a essi. Non vedevano più il sole, celato ora dal vasto schermo del cono superiore, che mascherava un gran tratto d’orizzonte a ovest, e la cui ombra enorme, allungandosi fino al litorale, cresceva gradatamente quanto più l’astro radioso si abbassava nella sua corsa diurna. Alcuni vapori, nebbie piuttosto che nubi, cominciavano a mostrarsi a est, e si tingevano di tutti i colori dell’iride, sotto l’azione dei raggi solari.

Cinquecento piedi soltanto separavano ancora gli esploratori dall’altipiano che volevano raggiungere, allo scopo di installarvi un accampamento per la notte; ma i cinquecento piedi si allungarono oltre due miglia, causa gli zigzag che bisognò compiere. Il suolo mancava, per così dire, sotto i piedi. Le chine presentavano spesso un angolo aperto in modo tale, che si scivolava sulle colate di lava, quando le loro striature, logorate dai venti, non offrivano un punto d’appoggio sufficiente. Insomma, si faceva sera a poco a poco, ed era quasi notte quando Cyrus Smith e i suoi compagni, stanchissimi per avere compiuto un’ascensione di sette ore, arrivarono alla sommità del primo cono.

Si trattò allora di organizzare l’accampamento e di rinvigorire le forze esauste, cenando dapprima, dormendo poi. Quel secondo ripiano della montagna si elevava su una base di rupi, in mezzo alle quali si trovò facilmente un rifugio. Però, non v’era lassù abbondanza di combustibile. Ciò nonostante, si sarebbe forse potuto ottenere del fuoco con i muschi e gli sterpi secchi, che coprivano una parte del pianoro. Perciò, mentre il marinaio preparava il focolare con alcune pietre opportunamente collocate, Nab e Harbert si occuparono di provvederlo di combustibile, e ritornarono, poco dopo, con un carico di sterpi secchi. La pietra focaia fu battuta, la tela bruciata raccolse le scintille della silice, e, sotto i potenti soffi di Nab, un fuoco sfavillante si sviluppò in pochi istanti, al riparo delle rocce.

Quel fuoco era solo destinato a combattere la temperatura un po’ fredda della notte e non fu adoperato per la cottura del fagiano, che Nab riservò per l’indomani. I resti del capibara e alcune dozzine di pigne costituirono gli elementi della cena. Non erano ancora le sei e mezzo pomeridiane che la cena era già finita.

Cyrus Smith pensò allora di esplorare, nella semioscurità, quella larga superficie circolare di pietre, che sosteneva il cono superiore della montagna. Prima di concedersi un po’ di riposo, voleva sapere se quel cono avrebbe potuto essere aggirato alla base, nel caso in cui l’eccessiva ripidità dei fianchi ne avesse reso inaccessibile la cima. Questo problema non cessava di preoccuparlo, giacché era possibile che, dal lato ove il cappello s’inclinava, cioè verso il nord, l’altipiano non fosse praticabile. Ora, se la cima della montagna non fosse stata raggiungibile e se purtroppo non si fosse riusciti a girare attorno alla base del cono, sarebbe stato impossibile esaminare la parte occidentale della regione, e quindi lo scopo dell’ascensione sarebbe in parte fallito.

Dunque, l’ingegnere, senza far caso alle fatiche già sopportate, lasciando Pencroff e Nab a organizzare l’accampamento per la notte e Gedeon Spilett ad annotare gli avvenimenti della giornata, cominciò a percorrere l’orlo circolare del pianoro, dirigendosi verso nord. Harbert lo accompagnava.

La notte era bella e tranquilla e l’oscurità non ancora profonda. Cyrus Smith e il ragazzo camminavano l’uno vicino all’altro, senza parlare. In certi punti l’altipiano si apriva ampiamente dinanzi a loro, e passavano senza difficoltà. Altrove, invece, ingombrato da detriti di frane, esso non offriva che uno stretto passaggio, sul quale due persone non potevano camminare a lato. Accadde, inoltre, che dopo una marcia di venti minuti, Cyrus Smith e Harbert dovettero fermarsi. A cominciare da quel punto, il fianco ripido del cono inferiore diveniva una cosa sola col fianco ugualmente ripido del cono superiore; i due pendii così si pareggiavano e nulla più separava le due parti della montagna. Girarle attorno, quindi, su chine inclinate a quasi settanta gradi, diveniva impossibile.

Ma, se l’ingegnere e il giovinetto dovettero rinunciare a seguire, una direzione circolare, si presentò loro, in compenso, la possibilità di riprendere direttamente l’ascensione del cono.

Infatti, dinanzi a loro s’apriva nella montagna uno spacco profondo. Era lo sbocco del cratere superiore, la gola, il tubo, se così si vuol chiamare, per cui sfuggivano le materie eruttive liquide, all’epoca in cui il vulcano era ancora in attività. Le lave indurite, le scorie incrostate formavano una specie di scalinata naturale, dai gradini molto pronunciati e rilevati, che dovevano facilitare assai l’accesso alla vetta.

Un colpo d’occhio bastò a Cyrus Smith per prendere conoscenza di tutto quell’insieme di cose, e senza esitare, seguito dal ragazzo, si cacciò nell’enorme crepaccio, in mezzo a un’oscurità sempre crescente.

Rimaneva ancora da superare un’altezza di mille piedi. I declivi interni del cratere erano praticabili? È quanto si sarebbe visto. L’ingegnere avrebbe continuato il suo cammino ascensionale sino a che non ne fosse stato fermato da ostacoli insormontabili. Fortunatamente, quei declivi, poco erti e sinuosissimi, descrivevano una larga spirale a vite nell’interno del vulcano, e favorivano l’ascensione.

Quanto al vulcano stesso, non si poteva dubitare che non fosse completamente spento. Non un filo di fumo sfuggiva dai suoi fianchi. Non una fiamma si svelava in quelle profonde cavità. Non un rombo, non un mormorio, non un sussulto usciva da quel pozzo oscuro, che sprofondava forse fin nelle viscere della terra. L’atmosfera stessa, nell’interno del cratere, non era satura di nessun vapore solforoso. Più che il sonno di un vulcano, era la sua completa estinzione.

Il tentativo di Cyrus Smith era destinato a riuscire. A poco a poco, salendo lungo le pareti interne, lui e Harbert videro il cratere allargarsi al di sopra della loro testa. Il raggio di quel tratto circolare di cielo, inquadrato dagli orli del cono, aumentò sensibilmente. A ogni passo, per così dire, che Cyrus Smith e Harbert facevano, nuove stelle entravano nel campo della loro visibilità. Le magnifiche costellazioni di quel cielo australe risplendevano. Allo zenit brillavano di puro splendore la bellissima Antares dello Scorpione, e non lontano, quella Beta del Centauro, che si crede sia la stella più vicina al globo terrestre. Poi, man mano che il cratere s’allargava, apparvero Fomalhaut del Pesce australe, il Triangolo australe e, infine, quasi al polo antartico, la sfavillante Croce del Sud, che sostituisce la Polare dell’emisfero boreale.

Erano quasi le otto, quando Cyrus Smith ed Harbert misero piede sulla cresta superiore del monte, alla sommità del cono.

L’oscurità era completa, e non permetteva allo sguardo di spaziare per due miglia all’intorno. Quella terra sconosciuta era circondata dal mare, o si congiungeva, a ovest, a qualche continente del Pacifico? Non si poteva ancora saperlo. Verso l’ovest, una fascia nuvolosa, nettamente disegnata all’orizzonte, accresceva le tenebre, e l’occhio non poteva distinguere se il cielo e l’acqua si confondevano su di una medesima linea circolare.