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I COLONI dell’isola di Lincoln gettarono un ultimo sguardo intorno, fecero il giro del cratere percorrendone la stretta cresta, e mezz’ora dopo erano ridiscesi sul primo altipiano, al loro accampamento notturno.

Pencroff pensò che era l’ora della colazione, e a questo proposito si ritenne opportuno di regolare i due orologi, quello di Cyrus Smith e quello del giornalista.

È noto che l’orologio di Gedeon Spilett era stato rispettato dall’acqua di mare, poiché egli era stato gettato direttamente sulla sabbia, al sicuro dalle onde. Detto orologio era uno strumento in condizioni eccellenti, un vero cronometro da tasca, che Gedeon Spilett non aveva mai trascurato di ricaricare accuratamente ogni giorno.

Quanto all’orologio dell’ingegnere, esso si era necessariamente fermato durante il tempo che Cyrus Smith aveva passato svenuto fra le dune.

L’ingegnere dunque lo ricaricò, e, calcolando approssimativamente dall’altezza del sole che dovevano essere circa le nove del mattino, lo mise su quest’ora.

Gedeon Spilett stava per imitarlo, quando l’ingegnere, fermandolo con la mano, gli disse:

«No, caro Spilett, aspettate. Voi avete conservato l’ora di Richmond?»

«Sì, Cyrus.»

«Di conseguenza, il vostro orologio è regolato sul meridiano di quella città, meridiano che è press’a poco quello di Washington?»

«Certo.»

«Ebbene, conservatelo così. Accontentatevi di ricaricarlo regolarmente, ma non toccate le lancette. Questo potrà servirci.»

«A che cosa?» pensò il marinaio.

Mangiarono, e tanto abbondantemente, che la riserva di selvaggina e di pinoli fu completamente esaurita. Ma Pencroff non ne fu per nulla impensierito. Cammin facendo si sarebbero senza dubbio riforniti. Top, che aveva avuto una porzione assai lauta, avrebbe ben saputo scovare altra selvaggina nelle protettrici ombre dei boschi cedui. Inoltre, il marinaio pensava di chiedere, come se niente fosse, all’ingegnere di fabbricare della polvere da sparo, e uno o due fucili da caccia; nella sua ingenuità, egli non vedeva in questo alcuna grossa difficoltà.

Lasciando l’altipiano, Cyrus Smith propose ai compagni di tornare ai Camini per una strada nuova. Egli desiderava vedere da vicino quel lago Grant, magnificamente incastonato nella sua cornice d’alberi. Seguirono, perciò, la cresta di uno dei contrafforti, tra i quali il creek (Nota: Nome che gli americani danno ai corsi d’acqua di scarsa importanza. Fine nota) che alimentava il lago aveva probabilmente la sua sorgente. Conversando, i coloni usavano già scrupolosamente i nomi propri, poco prima stabiliti, e questo facilitava singolarmente lo scambio delle idee. Harbert e Pencroff, l’uno giovane e l’altro ancora un po’ fanciullo, erano lietissimi, e, mentre camminava, il marinaio diceva:

«Neh, Harbert! come tutto procede a meraviglia! Smarrirci è impossibile, ragazzo mio, poiché, sia che seguiamo la strada del lago Grant, sia che raggiungiamo il fiume Mercy attraverso i boschi del Far West, arriveremo sempre senz’altro all’altipiano di Bellavista e di conseguenza, alla baia dell’Unione.»

Era stato deciso che, pur senza formare un gruppo compatto, i coloni non si sarebbero allontanati troppo gli uni dagli altri. Certamente, degli animali pericolosi abitavano le fitte foreste dell’isola, e perciò era prudente stare in guardia. Generalmente, Pencroff, Harbert e Nab marciavano in testa, preceduti da Top, che frugava ogni angolo. Il giornalista e l’ingegnere procedevano insieme, Gedeon Spilett pronto ad annotare ogni avvenimento; l’ingegnere quasi sempre silenzioso e senza mai scostarsi dalla propria strada se non per raccattare ora una cosa, ora un’altra, sostanze minerali o vegetali, che ficcava in tasca, senza fare nessuna riflessione.

«Che cosa diavolo raccoglie?» mormorava Pencroff. «Ho un bel guardare, ma non vedo cose per cui valga la pena di chinarsi!»

Verso le dieci, la piccola comitiva discendeva le ultime pendici del monte Franklin. Anche qui il suolo era sparso solamente di cespugli e di rari alberi. Si camminava su una terra giallastra e calcinata, formante una pianura lunga circa un miglio, che precedeva il limite dei boschi. Grossi blocchi di quel basalto, che, secondo le esperienze di Bischof, ha avuto bisogno, per raffreddarsi, di trecentocinquanta milioni d’anni, erano sparsi qua e là per la pianura, a tratti molto tormentata. Tuttavia, non c’era traccia di lava, la quale s’era più particolarmente riversata lungo i pendii settentrionali.

Cyrus Smith era convinto, dunque, di raggiungere senza incidenti il corso del rivo che, secondo lui, doveva scorrere sotto gli alberi, al confine della pianura, quando vide corrergli incontro precipitosamente Harbert, mentre Nab e il marinaio si nascondevano dietro le rocce.

«Che cosa c’è, ragazzo mio?» domandò Gedeon Spilett.

«Fumo» rispose Harbert. «Abbiamo visto del fumo innalzarsi fra le rocce, a cento passi da noi.»

«Uomini qui?» esclamò il cronista.

«Evitiamo di mostrarci, prima di sapere con chi abbiamo a che fare» rispose Cyrus Smith. «Temo gli indigeni, se mai ce ne sono su quest’isola, più di quanto li desideri. Dov’è Top?»

«Top è avanti.»

«E non abbaia?»

«No.»

«È strano. Ma proviamo a richiamarlo.»

In pochi istanti, l’ingegnere, Gedeon Spilett e Harbert raggiunsero i compagni, e, come loro, si nascosero dietro massi di basalto.

Di là, essi scorsero una colonna di fumo, molto visibile, che s’elevava in spire vorticose nell’aria; fumo dal colore giallastro, molto caratteristico.

Top, richiamato da un leggero fischio del padrone, tornò indietro, mentre l’ingegnere, facendo segno ai compagni di aspettarlo, s’insinuò tra le rocce.

I coloni, immobili, aspettavano con una certa ansietà il risultato dell’esplorazione, quando una chiamata di Cyrus Smith li fece accorrere. Essi lo raggiunsero tosto, e per prima cosa furono colpiti dall’odore sgradevole che impregnava l’atmosfera.

Quell’odore, facilmente riconoscibile, era bastato all’ingegnere per indovinare che cos’era quel fumo che, a tutta prima, l’aveva reso inquieto, e non senza ragione.

«Quel fuoco» diss’egli «o piuttosto quel fumo, è la natura che lo produce. Si tratta di una sorgente solforosa, che ci permetterà di curare efficacemente le nostre laringiti.»

«Bene!» esclamò Pencroff. «Peccato ch’io non sia raffreddato!»

I coloni si diressero allora verso il luogo donde usciva il fumo. Là, videro una sorgente solforosa sodica, che sgorgava abbastanza abbondantemente fra le rocce, e le cui acque, dopo aver assorbito l’ossigeno dell’aria, emanavano un forte odore di acido solfidrico.

Cyrus Smith, immergendovi una mano, trovò quelle acque untuose al tatto. Le assaggiò e constatò che il loro sapore era un po’ dolciastro. Quanto alla loro temperatura, egli la calcolò a 95 gradi Fahrenheit (35 centigradi). E avendogli domandato Harbert su che cosa basava quella valutazione:

«È molto semplice, ragazzo mio» rispose. «Tuffando la mano in quest’acqua, io non ho provato sensazione né di freddo, né di caldo. Dunque, essa ha la medesima temperatura del corpo umano, che è appunto di circa novantacinque gradi.»

Poi, non offrendo, per il momento, la sorgente solforosa alcuna utilità, i coloni si diressero verso il margine della fitta foresta che si stendeva ad alcune centinaia di passi.

Là, come si presumeva, il ruscello scorreva con vive e limpide acque fra rive di terra rossa, dal colore che rivelava la presenza dell’ossido di ferro. Questo colore fece immediatamente dare al corso d’acqua il nome di Creek Rosso.

Non era che un largo ruscello, profondo e chiaro, formato dalle acque della montagna, che metà rio, metà torrente, qui scorrendo lentamente e pacificamente sulla sabbia, là rumoreggiando nell’urtare contro punte di roccia o precipitando in cascata, correva verso il lago, con una lunghezza di un miglio e mezzo e una larghezza variabile da trenta a quaranta piedi. Le sue acque erano dolci, il che doveva far supporre che dolci fossero pure quelle del lago. Fortunata circostanza questa, nel caso che si trovasse in quei pressi una dimora più conveniente dei Camini.