«Ecco due coltelli, Pencroff!»
Gli risposero due poderosi evviva del marinaio. Il collare di Top era fatto di una sottile lamina d’acciaio temperato. Bastava, dunque, affilarlo prima su una pietra di grès, in modo da mettere al vivo l’angolo del taglio, e poi eliminare il filo morto su di un grès più fino. Ora, questo genere di roccia arenaria si trovava in abbondanza sulla spiaggia, di modo che, due ore dopo, l’attrezzatura della colonia si componeva di due lame taglienti, ch’era stato facile fissare in una solida impugnatura.
La conquista di quel primo utensile fu salutata come un trionfo. Era una conquista preziosa davvero e giungeva proprio opportuna.
Partirono. Era intenzione di Cyrus Smith di ritornare sulla riva occidentale del lago, là dove aveva osservato il giorno innanzi la terra argillosa di cui possedeva un campione. Si avviarono quindi lungo la riva del Mercy, attraversarono l’altipiano di Bellavista, e dopo una marcia di cinque miglia al massimo, arrivarono a una radura situata a duecento passi dal lago Grant.
Cammin facendo, Harbert aveva scoperto un albero, i cui rami vengono adoperati dagli Indiani dell’America meridionale per la fabbricazione degli archi. Era il crejimba della famiglia dei palmizi, che non produce frutti commestibili. Furono tagliati e sfrondati alcuni rami lunghi e diritti, che vennero poi assottigliati alle estremità e lasciati robusti nel mezzo: non c’era che da trovare una pianta adatta a formare la corda dell’arco. Un hibiscus heterophyllus, pianta di una specie appartenente alla famiglia delle malvacee, diede fibre di notevole resistenza, tanto che si sarebbe potuto paragonarle a tendini di animali. Pencroff ottenne così degli archi abbastanza forti, ai quali non mancavano che le frecce. Queste si potevano fare facilmente con dei rami dritti e rigidi, senza nodosità, ma la punta di cui dovevano essere armate, vale a dire una sostanza atta a surrogare il ferro, non si poteva trovare altrettanto facilmente. Tuttavia Pencroff pensò che, avendo fatto la sua parte di lavoro, al resto avrebbe provveduto il caso.
I coloni erano giunti sul territorio esplorato il giorno avanti. Esso era costituito di quell’argilla figulina che serve a fabbricare i mattoni e le tegole; argilla, quindi, convenientissima per l’operazione ch’essi dovevano condurre a buon fine. La lavorazione non presentava difficoltà alcuna. Bastava sgrassare l’argilla con della sabbia, dare la forma ai mattoni e cuocerli poi su di un fuoco di legna.
Solitamente, i mattoni vengono pressati in stampi adatti, ma l’ingegnere si accontentò di fabbricarli con le mani. Il lavoro occupò tutta quella giornata e anche la seguente. L’argilla, imbevuta d’acqua, impastata e battuta poi con i piedi e con i pugni dei lavoratori, fu divisa in prismi di uguale grandezza. Un operaio pratico può confezionare, senza macchina, anche diecimila mattoni in dodici ore; ma i cinque dell’isola Lincoln, in due giornate di lavoro, non ne fabbricarono più di tremila, che furono disposti gli uni vicini agli altri, in attesa del momento in cui, essiccati completamente, sarebbe stato possibile cuocerli, cioè dopo tre o quattro giorni.
Nella giornata del 2 aprile Cyrus Smith si occupò di rilevare la posizione dell’isola.
Il giorno prima egli aveva segnato esattamente l’ora in cui il sole era scomparso dall’orizzonte, tenendo conto della rifrazione dei raggi. E quella mattina egli rilevò non meno esattamente l’ora in cui il sole riapparve. Fra il tramonto e l’alba, erano passate dodici ore meno ventiquattro minuti. Dunque, sei ore e dodici minuti dopo il suo sorgere, il sole, in quel giorno, sarebbe passato esattamente sul meridiano e il punto del cielo che esso avrebbe occupato in quel momento avrebbe indicato il nord. (Nota: Infatti, in quell’epoca dell’anno e a quella latitudine, il sole si levava alle 5,48 del mattino, e tramontava alle 6,12 della sera. Fine nota)
All’ora suddetta, Cyrus rilevò questo punto e allineando con il sole due alberi, che gli sarebbero serviti da punto di riferimento, ottenne così una meridiana invariabile per le ulteriori operazioni.
Durante i due giorni che precedettero la cottura dei mattoni, fu provveduto all’approvvigionamento del combustibile. Furono tagliati alcuni rami attorno alla radura, e si raccolsero tutti quelli caduti. Contemporaneamente, si cacciò,un poco nei dintorni, e con il maggior successo, in quanto Pencroff possedeva ora già alcune dozzine di frecce armate di punte acuminatissime. Top aveva fornito quelle punte, recando un porcospino, selvaggina piuttosto mediocre, ma di un valore incontestabile per gli aculei di cui era irto. Questi aculei furono solidamente infissi all’estremità delle frecce, alle quali fu applicata un’impennatura di piume di pappagallo, per assicurarne la direzione. Il giornalista e Harbert divennero presto degli accortissimi tiratori d’arco. E la selvaggina d’ogni sorta abbondò ai Camini: capibara, piccioni, aguti, galli di montagna, ecc. La maggior parte di questi animali fu uccisa nella zona della foresta situata sulla riva sinistra del fiume Mercy, alla quale si diede il nome di bosco dello Jacamar in memoria del volatile cui Harbert e Pencroff avevano dato la caccia durante la loro prima esplorazione.
Quella selvaggina fu mangiata fresca, ma si conservarono i prosciutti del capibara, affumicandoli sopra un fuoco di legna verde, dopo averli aromatizzati con foglie odorose. Tuttavia quel cibo, per quanto molto corroborante, era pur sempre dell’arrosto, e i commensali sarebbero stati lieti di sentire, dopo tanto, bollire sul focolare un semplice lesso; ma per questo bisognava aspettare che la pentola fosse fabbricata, e logicamente, che fosse prima costruito il forno.
Durante le escursioni, che si limitarono a una zona molto ristretta intorno alla fabbrica di mattoni, i cacciatori poterono constatare tracce del passaggio recente di grandi animali, armati di artigli potenti, ma di cui non riuscirono a indovinare la specie. Cyrus Smith raccomandò loro un’estrema prudenza, giacché era probabile che la foresta nascondesse qualche belva pericolosa.
E fece bene. Infatti, Gedeon Spilett e Harbert scorsero un giorno una bestia che somigliava a un giaguaro. Essa non li attaccò, e fu gran fortuna, perché probabilmente non se la sarebbero cavata senza qualche grave ferita. Ma Gedeon Spilett, quando avesse avuto una vera arma, vale a dire uno di quei fucili che Pencroff reclamava, si riprometteva di fare una guerra accanita alle bestie feroci e di liberarne l’isola.
Durante quei pochi giorni, nulla fu fatto per rendere più comodi i Camini, giacché l’ingegnere si proponeva di scoprire o anche costruire, se occorreva, una dimora più conveniente. Ci si accontentò di stendere sulla sabbia dei corridoi un fresco letto di muschi e di foglie secche e, su quei giacigli un po’ primitivi, i lavoratori, spossati, dormirono un sonno perfetto.
Fu, inoltre, fatto il conto dei giorni passati sull’isola di Lincoln, da quando i coloni vi avevano atterrato e da allora ne fu tenuto sempre un computo regolare. Il 5 aprile, un mercoledì, erano dodici giorni da che il vento aveva gettato i naufraghi su quel litorale.
Il 6 aprile, sin dall’alba, l’ingegnere e i suoi compagni erano riuniti nella radura, dove stava per aver luogo la cottura dei mattoni. Naturalmente, tale operazione doveva essere fatta all’aria aperta e non dentro i forni; d’altra parte, l’agglomerato dei mattoni avrebbe formato un enorme forno che si sarebbe cotto da sé. Il combustibile, composto di fascine ben preparate, fu messo a terra e circondato da parecchie file di mattoni disseccati, che formarono in breve un grosso cubo, all’esterno del quale furono lasciati aperti degli sfiatatoi. Quel lavoro durò tutta la giornata e soltanto a sera fu dato fuoco alle fascine.
Quella notte nessuno si coricò, ma tutti vegliarono attentamente perché il fuoco non si spegnesse.
L’operazione durò quarantott’ore e riuscì perfettamente. Bisognò allora lasciar raffreddare la massa fumante e, nel frattempo, Nab e Pencroff, guidati da Cyrus Smith, trasportarono, su un graticcio fatto di rami intrecciati, parecchi carichi di carbonato di calcio, pietre comunissime, che si trovavano in abbondanza a nord del lago. Queste pietre, decomposte dal calore, produssero una calce viva, molto grassa, che si dilatava molto estinguendosi, ed era pura come se fosse stata prodotta dalla calcinazione di creta o marmo. Mescolata con sabbia, il cui effetto è di attenuare il ritiro della pasta quando solidifica, quella calce fornì una malta eccellente.