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«A stasera, alle dieci,» rispose Cyrus Smith «e voglia il cielo che questa tempesta non si calmi prima della nostra partenza!»

Pencroff s’accomiatò dall’ingegnere, e tornò al suo alloggio, ove era rimasto il giovane Harbert Brown. Quel coraggioso ragazzo conosceva il piano del marinaio e attendeva, non senza una certa ansietà, il risultato del tentativo fatto presso l’ingegnere. Come si vede, erano cinque uomini risoluti che andavano così a gettarsi nella tormenta, in pieno uragano!

No. L’uragano non si acquietò, e né Jonathan Forster, né i suoi compagni potevano pensare ad affrontarlo in quella fragile navicella! La giornata fu terribile! L’ingegnere non temeva che una sola cosa: che l’aerostato, trattenuto al suolo e coricato dal vento, si lacerasse in mille pezzi. Durante parecchie ore si aggirò per la piazza quasi deserta, sorvegliando l’apparecchio. Pencroff, con le mani in tasca, faceva altrettanto dal canto suo, sbadigliando di tanto in tanto, come uno che non sa come ammazzare il tempo, ma temendo egli pure che il pallone si squarciasse o spezzasse i legami cui era avvinto e se ne fuggisse nell’aria.

Giunse la sera. La notte si fece scurissima. Dense ondate di nebbia passavano come nuvole sfiorando la terra. Cadeva una pioggia mista a neve. Il tempo era freddo. Una specie di nebbia pesava su Richmond. Sembrava che la violenta tempesta avesse provocato una tregua fra gli assediami e gli assediati e che il cannone avesse voluto tacere di fronte alle formidabili detonazioni dell’uragano. Le vie della città erano deserte. Non era nemmeno sembrato necessario, dato il tempo orribile, vigilare la piazza, in mezzo alla quale si dibatteva l’aerostato. Tutto evidentemente favoriva la partenza dei prigionieri, ma quel viaggio, in mezzo alle raffiche scatenate…

«Cattivo tempo!» si diceva Pencroff, assicurandosi sul capo, con un pugno, il cappello, che il vento gli disputava. «Ma ne verremo a capo ugualmente!»

Alle nove e mezzo, Cyrus Smith e i suoi compagni sgattaiolavano da vari lati sulla piazza, che le lanterne a gas, spente dal vento, lasciavano in un’oscurità profonda. Non si vedeva nemmeno l’enorme aerostato, quasi interamente coricato e schiacciato al suolo. Indipendentemente dai sacchi di zavorra, che trattenevano le funi della rete, la navicella era assicurata con un robusto cavo infilato in un anello infisso nel selciato, che tornava a bordo con l’altro capo. I cinque prigionieri si riunirono presso la navicella. Nessuno li aveva veduti: l’oscurità era tale, che non potevano vedersi nemmeno fra loro.

Senza pronunciare una parola, Cyrus Smith, Gedeon Spilett, Nab e Harbert presero posto nella navicella, mentre Pencroff, dietro ordine dell’ingegnere, staccava l’uno dopo l’altro i sacchetti di zavorra. Fu questione di alcuni istanti, poi il marinaio raggiunse i suoi compagni.

L’aerostato non fu allora trattenuto che dal cavo: Cyrus Smith non aveva che da dare l’ordine di partenza. In quel momento, un cane diede d’un salto la scalata alla navicella. Era Top, il cane dell’ingegnere, che, avendo spezzato i lacci, aveva seguito il padrone. Cyrus Smith, temendo un eccesso di peso, voleva lasciare a terra la povera bestia.

«Peuh! Uno di più!…» disse Pencroff, alleggerendo la navicella di altri due sacchi di sabbia.

Poi, egli mollò il doppino di cavo, e il pallone, prendendo una direzione obliqua, disparve, dopo avere urtato e abbattuto con la navicella due comignoli, nella furia della partenza.

L’uragano si scatenava allora con una spaventosa violenza. L’ingegnere, durante la notte, non poté certo pensare a discendere, e quando si fece giorno, la vista della terra gli era totalmente impedita dai vapori dell’atmosfera. Soltanto cinque giorni dopo una specie di chiarore diffuso lasciò indovinare il mare immenso al di sotto dell’aerostato, che il vento trascinava con una velocità spaventevole!

Già sappiamo come, dei cinque uomini partiti il 20 marzo, quattro erano stati gettati, il 24 marzo, su una costa deserta, a più di seimila miglia dal loro Paese! (Nota: Il 5 aprile, Richmond cadeva nelle mani di Grant, la rivolta dei separatisti era soffocata, Lee si ritirava nell’Ovest, e la causa dell’unità americana trionfava. Fine nota)

Colui che mancava all’appello, colui che i quattro superstiti si apprestavano senz’indugio a rintracciare e a soccorrere era il loro capo: l’ingegnere Cyrus Smith!

CAPITOLO III

ALLE CINQUE DI SERA «COLUI CHE MANCA» LA DISPERAZIONE DI NAB «RICERCHE AL NORD» L’ISOLOTTO «UNA TRISTE NOTTE DI ANGOSCE» LA NEBBIA DELLA MATTINA «NAB A NUOTO» IN VISTA DELLA TERRA «PASSAGGIO A GUADO DEL CANALE»

L’INGEGNERE, attraverso le maglie della rete che avevano ceduto, era stato portato via da un colpo di mare. Anche il suo cane era scomparso. Il fedele animale si era volontariamente precipitato in soccorso del padrone.

«Avanti!» gridò il giornalista.

E tutt’e quattro, Gedeon Spilett, Harbert, Pencroff e Nab, dimenticando spossatezza e fatiche, incominciarono le ricerche.

Il povero Nab piangeva di rabbia e di disperazione a un tempo, al pensiero di avere perso tutto ciò ch’egli amava al mondo.

Non erano trascorsi due minuti tra la scomparsa di Cyrus Smith e l’istante in cui i suoi compagni avevano toccato terra. Essi potevano, dunque, sperare d’arrivare in tempo a salvarlo.

«Cerchiamo! Cerchiamo!» gridò Nab.

«Sì, Nab,» rispose Gedeon Spilett «e lo ritroveremo!»

«Vivo?»

«Vivo!»

«Sa nuotare?» domandò Pencroff.

«Sì,» rispose Nab «e, d’altronde, Top è con lui!… Il marinaio, sentendo il mare mugghiare, scosse la testa. L’ingegnere era sparito a nord della costa, a mezzo miglio circa dal punto»

ove i naufraghi avevano atterrato. Se egli aveva potuto raggiungere il punto più vicino del litorale, questo non doveva distare più di mezzo miglio dal punto dell’atterraggio.

Erano quasi le sei. La nebbia si era levata da poco e rendeva la notte scurissima. I naufraghi camminavano verso nord seguendo la costa est di quella terra sulla quale il caso li aveva gettati, terra sconosciuta, di cui essi non potevano nemmeno supporre la posizione geografica. Calpestavano un suolo sabbioso, misto di sassi, che pareva privo di ogni vegetazione. Quel suolo, molto ineguale, tutto a ciottoli, sembrava in certi punti crivellato di piccole buche, che rendevano il cammino penosissimo. Da queste buche uscivano a ogni momento grossi uccelli dal volo pesante, fuggenti in tutte le direzioni; ma l’oscurità impediva di vederli. Altri, più agili, si levavano a stormi e passavano come nembi. Il marinaio credeva di riconoscere in essi dei gabbiani, e delle procellarie, le cui acute strida parevano fare a gara con i ruggiti del mare.

Di tanto in tanto i naufraghi si fermavano, chiamavano ad altissima voce, e ascoltavano se per caso venisse una qualche risposta dalla parte dell’oceano. Essi pensavano, infatti, che se fossero stati in prossimità del luogo ove l’ingegnere aveva potuto toccar terra, i latrati di Top sarebbero arrivati fino a loro, nel caso che Cyrus Smith fosse stato nell’impossibilità di dar segno di vita. Ma nessun grido si elevava sul brontolio delle onde e il rumore della risacca. Allora, la piccola comitiva riprendeva la marcia in avanti, frugando anche le più insignificanti anfrattuosità del litorale.

Dopo una corsa di venti minuti, i quattro naufraghi vennero arrestati improvvisamente da una schiumante barriera di onde. Il terreno solido mancava loro sotto i piedi. Essi erano giunti all’estremità di una punta sottilissima, contro la quale il mare si frangeva con furore.

«È un promontorio» disse il marinaio. «Bisogna ritornare sui nostri passi tenendo la destra, e arriveremo così alla terraferma.»

«Ma egli è là!» rispose Nab, indicando l’oceano, le cui onde enormi biancheggiavano nell’ombra.

«Ebbene, chiamiamolo!»

E tutti, unendo le loro voci, lanciarono un vigoroso richiamo; ma nulla e nessuno rispose. Attesero che si facesse una tregua nel fragore degli elementi e rinnovarono la chiamata. Ancora nulla.