I naufraghi ritornarono, seguendo il rilievo opposto del promontorio, trovando un suolo ugualmente sabbioso e pietroso. Tuttavia, Pencroff osservò che il terreno saliva, e suppose che doveva raggiungere, mediante un tratto assai lungo in salita, un’alta costa, la cui massa si profilava confusamente nell’ombra. Gli uccelli erano meno numerosi in questa parte della spiaggia. Anche il mare vi si mostrava meno agitato, meno fragoroso, e si poteva inoltre osservare che l’agitazione delle onde diminuiva sensibilmente. Si udiva appena il rumore della risacca. Indubbiamente, quel fianco del promontorio formava un’ansa semicircolare che, dalla punta sporgente del promontorio stesso, era protetta contro le ondate del mare aperto.
Ma, seguendo questa direzione, si andava verso il sud: si andava, cioè, all’opposto di quella parte della costa ove, eventualmente, Cyrus Smith poteva aver preso terra. Dopo un percorso di un miglio e mezzo, il litorale non presentava ancora alcuna curva che permettesse di ripiegare verso il nord. Però, il promontorio, del quale avevano girato la punta, non poteva non riunirsi alla terraferma. Benché allo stremo delle forze, i naufraghi camminavano decisi, con la speranza di trovare a ogni momento qualche svolta improvvisa che li riconducesse nella primitiva direzione.
Grande fu, dunque, la loro delusione, quando, dopo aver percorso due miglia circa, si videro ancora una volta arrestati dal mare su una punta assai elevata, fatta di rocce sdrucciolevoli.
«Siamo su un isolotto!» disse Pencroff. «E l’abbiamo ormai percorso da un’estremità all’altra!»
L’osservazione del marinaio era giusta. I naufraghi erano stati gettati, non su di un continente, e nemmeno su di un’isola, ma su un isolotto, che non misurava più di due miglia di lunghezza e la cui larghezza era evidentemente poco considerevole.
Quell’arido isolotto, sparso di pietre, senza vegetazione, apparteneva forse a un arcipelago più importante? Non era possibile dirlo. Gli aeronauti, quando dalla loro navicella avevano intravisto la terra attraverso le nebbie, non avevano potuto rendersi esatto conto dell’ampiezza di essa. Ma Pencroff, con i suoi occhi di marinaio abituati a penetrare l’ombra, credette, in quel momento, di distinguere a ovest delle masse confuse, indizio di una costa elevata.
Ma non si poteva, data l’oscurità, determinare a quale sistema, semplice o complesso, appartenesse l’isolotto. Nemmeno si poteva uscirne, giacché il mare lo circondava. Bisognava, dunque, rimandare all’indomani la ricerca dell’ingegnere, che non aveva, ahimè! segnalato la sua presenza con alcun grido.
«Il silenzio di Cyrus non prova niente» disse il giornalista. «Può essere svenuto, ferito, in uno stato tale da non potere per il momento rispondere: non dobbiamo disperare.»
Il giornalista manifestò allora l’idea di accendere, su un punto dell’isolotto, qualche fuoco che potesse servire di segnale all’ingegnere. Ma invano si cercò della legna o degli sterpi secchi. Sabbia e pietre, non c’era altro.
Si può comprendere il dolore di Nab e quello dei suoi compagni, che si erano vivamente affezionati all’intrepido Cyrus Smith. Era fin troppo evidente ch’essi erano, per allora almeno, impotenti a soccorrerlo. Bisognava aspettare il nuovo giorno. O l’ingegnere aveva potuto salvarsi da sé, e già aveva trovato rifugio in un punto della costa, o era ormai perduto per sempre!
Quelle ore furono lunghe e penose da passare. Il freddo era acuto. I naufraghi soffrivano crudelmente, ma se ne accorgevano appena. Essi non pensarono nemmeno a prendere un breve riposo. Dimenticando se stessi per il loro capo, sperando, volendo sperare sempre, andavano e venivano su quell’isolotto arido, ritornando incessantemente sulla punta nord, là dove supponevano di essere più vicini al luogo della catastrofe. Ascoltavano, gridavano, cercavano di sorprendere qualche appello estremo, e le loro voci dovevano anche trasmettersi in lontananza, giacché una certa calma regnava ormai nell’atmosfera, e i rumori del mare cominciavano ad attenuarsi con la stessa mareggiata.
A un certo momento, un grido di Nab sembrò persino ripetersi: era l’eco. Harbert fece osservare il fenomeno a Pencroff, aggiungendo:
«Questo proverebbe che esiste a ovest una costa abbastanza vicina.»
Il marinaio fece un segno affermativo. D’altronde, i suoi occhi non potevano ingannarsi. Se egli aveva, sia pure vagamente, veduto terra, là una terra esisteva senza dubbio.
Ma questa eco lontana fu la sola risposta alle grida di Nab, e su tutta la parte est dell’isolotto l’immensità rimase silenziosa.
Nondimeno il cielo, a poco a poco, si liberava dai vapori. Verso mezzanotte alcune stelle brillarono, e se l’ingegnere fosse stato là, vicino ai suoi compagni, avrebbe potuto notare che non erano più le stelle dell’emisfero boreale. Infatti, la Stella Polare non appariva su questo nuovo orizzonte, le costellazioni dello zenit non erano più quelle che egli abitualmente osservava nella parte nord del nuovo continente, e la Croce del Sud risplendeva al polo australe.
Anche quella notte passò. Verso le cinque del mattino — era il 25 di marzo — le regioni più elevate del cielo presero qualche leggera sfumatura di colore. L’orizzonte restava ancora oscuro, ma, con i primi chiarori del giorno, una nebbia opaca si alzò dal mare, per modo che il raggio visivo non poteva estendersi più di una ventina di passi. La nebbia si snodava in larghe volute, che si muovevano pesantemente.
Era un contrattempo. I naufraghi nulla potevano distinguere attorno a se stessi. Mentre gli sguardi di Nab e del giornalista si rivolgevano sull’oceano, il marinaio e Harbert cercavano la costa all’ovest. Ma nemmeno un lembo di terra era visibile.
«Non importa,» disse Pencroff «anche se non vedo la costa, la sento… È là… là… Ne sono così sicuro com’è sicuro che non siamo più a Richmond!»
Ma la nebbia non avrebbe tardato a diradarsi. Non era che una foschia, indizio di bel tempo. Un buon sole ne scaldava gli strati superiori e quel calore, filtrando attraverso di essa, giungeva sino alla superficie dell’isolotto.
Infatti, verso le sei e mezzo, tre quarti d’ora dopo il levar del sole, la bruma divenne più trasparente: si condensava in alto, ma si scioglieva in basso. Poco dopo, l’intero isolotto apparve, come fosse disceso da una nuvola; poi, il mare si mostrò, simile a un piano circolare: infinito verso est, ma limitato verso ovest da una costa elevata e rocciosa.
Sì! La terra era là. Là, la salvezza, assicurata per lo meno provvisoriamente. Fra l’isolotto e la costa, separati da un canale largo un mezzo miglio, una corrente estremamente rapida si propagava rumorosamente.
Tuttavia, uno dei naufraghi, non consultando che il cuore, si precipitò tosto nella corrente, senza consigliarsi con i compagni, senza nemmeno dire una parola. Era Nab. Egli aveva fretta di raggiungere quella costa e di risalirla in direzione nord. Nessuno avrebbe potuto trattenerlo. Pencroff lo richiamò, ma invano. Il giornalista si accingeva a seguire Nab.
Pencroff, allora, avvicinandosi a lui:
«Volete attraversare questo canale?» domandò.
«Sì» rispose Gedeon Spilett.
«Orbene, aspettate, date retta a me» disse il marinaio. «Nab basterà a soccorrere il suo padrone. Se ci gettassimo in questo canale, rischieremmo di essere trascinati al largo dalla corrente, che è di una violenza straordinaria. Ora, se non m’inganno, si tratta di una corrente di riflusso. Osservate: la marea si abbassa sulla sabbia. Pazientiamo, dunque, e con la bassa marea è probabile che troviamo un punto guadabile…»
«Avete ragione» rispose il giornalista. «Dobbiamo separarci il meno possibile…»
Frattanto, Nab lottava vigorosamente contro la corrente. L’attraversava in direzione obliqua. Si vedevano le sue spalle nere emergere a ogni spinta. Egli cedeva alla deriva assai rapida, ma guadagnava strada anche verso la costa. Impiegò più di mezz’ora a percorrere il mezzo miglio che separava l’isolotto dalla terra, e poté toccare il lido solo a parecchie miglia di piedi dal luogo situato di fronte al punto donde era partito.