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Nab prese terra ai piedi di un’alta muraglia di granito e si scrollò vigorosamente; poi, sempre correndo, scomparve subito dietro una punta rocciosa, che si protendeva in mare, press’a poco all’altezza dell’estremità settentrionale dell’isolotto.

I compagni di Nab avevano seguito con angoscia il suo audace tentativo, e, quando non lo videro più, sollevarono gli occhi su quella terra alla quale stavano per domandare rifugio, mentre mangiavano alcuni frutti di mare di cui la sabbia era seminata: era un magro pasto, ma, insomma, era pur sempre qualche cosa.

La costa di fronte formava una vasta baia, terminante, a sud, con una punta sottilissima, spoglia di qualsiasi vegetazione e di aspetto molto selvaggio. Questa punta veniva a congiungersi al litorale in modo abbastanza capriccioso e si appoggiava ad alte rocce granitiche. Verso nord, invece, la baia, allargandosi, formava una costa più arrotondata, che correva da sudovest a nordest e terminava con uno snello promontorio. Fra questi due punti estremi, sui quali si appoggiava l’arco della baia, la distanza poteva essere di otto miglia. A mezzo miglio dalla spiaggia, l’isolotto occupava una stretta striscia di mare e somigliava a un enorme cetaceo, di cui rappresentava la carcassa molto ingrandita. La sua larghezza massima non oltrepassava un quarto di miglio.

Davanti all’isolotto, il litorale si componeva, in basso, di una spiaggia sabbiosa, sparsa di rocce nerastre, che in quel momento riaffioravano a poco a poco, per la marea discendente. Più in su, si staccava una specie di cortina granitica, tagliata a picco, coronata, a una altezza di trecento piedi almeno, da una cresta capricciosa. Essa si profilava così per una lunghezza di tre miglia, e finiva bruscamente a destra con un ripiano che si sarebbe creduto tagliato dalla mano dell’uomo. Sulla sinistra, invece, sopra il promontorio, questa specie di scogliera irregolare, che si sgretolava in schegge prismatiche ed era composta di agglomerati e detriti, declinava a mo’ di rampa allungata, che andava a confondersi a poco a poco con le rocce della punta meridionale.

Sull’altipiano sovrastante la costa, nessun albero. Era una specie di tavola rasa come quella che domina CapeTown, al capo di Buona Speranza, ma di proporzioni più ridotte. Per lo meno sembrava tale, vista dall’isolotto. Tuttavia, la verzura non mancava a destra, dietro quell’alto pianoro. Si distingueva facilmente la massa confusa dei grandi alberi, che si stendeva a perdita d’occhio. Quel verde rallegrava la vista, profondamente rattristata dalle aspre linee della parete di granito.

Infine, sullo sfondo del panorama e al di sopra dell’altipiano, in direzione di nordovest, a una distanza di almeno sette miglia, risplendeva una cima bianca che i raggi del sole colpivano in pieno. Era il cappuccio nevoso di qualche monte lontano.

Non era dunque possibile pronunciarsi circa la natura di quella terra: sapere, cioè, se formava un’isola o se apparteneva a un continente. Ma vedendo le rocce tormentate sulla sinistra, un geologo non avrebbe esitato ad attribuir loro un’origine vulcanica. Esse erano incontestabilmente il prodotto di un’attività plutonica.

Gedeon Spilett, Pencroff e Harbert osservavano attentamente quella terra, sulla quale stavano per andare a vivere forse per lunghi anni, sulla quale sarebbero fors’anche morti, se non si trovava sulla rotta delle navi!

«Ebbene,» domandò Harbert «che ne dici, Pencroff?»

«Bah,» rispose il marinaio «c’è del buono e c’è del gramo, come in ogni cosa. Vedremo. Ma ecco il riflusso che si fa sentire. Fra tre ore tenteremo il passaggio e, una volta arrivati là, cercheremo di trarci d’impaccio e di ritrovare il signor Smith!»

Pencroff non si era ingannato nelle sue previsioni. Tre ore dopo, a marea bassa, la maggior parte delle sabbie, formanti il letto del canale, era scoperta. Non restava tra l’isolotto e la costa che uno stretto canale, indubbiamente agevole da passare.

Infatti, verso le dieci, Gedeon Spilett e i suoi due compagni si spogliarono dei loro abiti, ne fecero un involto che misero sulla testa, e s’avventurarono nel canale, la cui profondità non oltrepassava i cinque piedi. Harbert, per il quale l’acqua sarebbe stata troppo alta, nuotava come un pesce e se la cavò a meraviglia. Tutt’e tre arrivarono senza difficoltà sull’opposta sponda. Là, avendoli il sole asciugati rapidamente, rimisero i loro vestiti, che avevano, come s’è visto, salvato dal contatto dell’acqua, e tennero consiglio.

CAPITOLO IV

I LITODOMI «IL FIUME ALLA SUA FOCE» I «CAMINI» «CONTINUAZIONE DELLE RICERCHE» LA FORESTA DI ALBERI VERDI «LA PROVVISTA DI COMBUSTIBILE» SI ATTENDE IL RIFLUSSO «DALL’ALTO DELLA COSTA» IL TRAINO VEGETALE «IL RITORNO A RIVA»

PRIMA DI TUTTO, il giornalista disse al marinaio di aspettarlo in quel medesimo luogo, ove egli lo avrebbe raggiunto più tardi; e, senza perdere un istante, risalì il litorale, nella direzione seguita dal negro Nab qualche ora prima. Poi scomparve rapidamente dietro un angolo della costa, tanto gli premeva di aver notizie dell’ingegnere.

Harbert avrebbe voluto accompagnarlo.

«Resta qui, ragazzo mio» gli aveva detto il marinaio. «Dobbiamo preparare un accampamento e vedere se sia possibile trovare qualcosa di più sostanzioso che i frutti di mare da mettere sotto i denti. I nostri amici avranno bisogno di rifocillarsi al loro ritorno. A ciascuno il suo compito.»

«Sono pronto, Pencroff» rispose Harbert.

«Bene!» riprese il marinaio «così va bene. Procediamo con metodo. Siamo stanchi, abbiamo freddo, abbiamo fame. Si tratta, dunque, di trovare ricovero, fuoco e nutrimento. La foresta ha legna, i nidi hanno uova: resta, quindi, da cercare la casa.»

«Cercherò io» rispose Harbert «una grotta in queste rocce, e finirò, spero, per scoprire qualche buco, entro il quale poterci cacciare!»

«Proprio quello che ci vuole!» disse Pencroff. «In cammino, in cammino, ragazzo mio.»

Ed eccoli procedere entrambi ai piedi dell’enorme muraglia, sulla spiaggia che la marea calante aveva scoperto per largo tratto. Ma, invece di risalire verso il nord, discesero a sud. Pencroff aveva osservato che la costa, a qualche centinaio di passi dal luogo dove erano sbarcati, offriva una stretta apertura che, secondo lui, doveva servire di sbocco a un fiume o a un ruscello. Ora, mentre era utile stabilirsi nelle vicinanze di un corso d’acqua bevibile, non era anche impossibile che la corrente avesse spinto Cyrus Smith da quella parte.

Come si è già detto, l’alta muraglia si drizzava fino a un’altezza di trecento piedi, ma quell’enorme massa era compatta ovunque e, anche alla base, — appena lambita dal mare — essa non presentava la minima fessura che potesse servire di ricovero provvisorio. Era un muro verticale, fatto di granito durissimo, che l’onda non aveva mai corroso. Intorno alla sua cima volteggiava tutto un mondo di uccelli acquatici, e particolarmente diverse specie dell’ordine dei palmipedi, dal lungo becco schiacciato e appuntito; volatili dalle alte e continue strida, poco impauriti dalla presenza dell’uomo, che per la prima volta, indubbiamente, turbava la loro solitudine. Fra quei palmipedi, Pencroff riconobbe parecchi individui di una specie di gabbiani, ai quali si dà qualche volta il nome di stercorari, e anche delle piccole procellarie voraci che nidificavano nelle anfrattuosita del granito. Un colpo di fucile sparato in mezzo a quella moltitudine di uccelli ne avrebbe abbattuti un gran numero; ma per tirare un colpo di fucile, occorreva un fucile, e né Pencroff né Harbert ne avevano uno. D’altronde, procellarie e stercorari sono a malapena mangiabili e anche le loro uova sono disgustose.