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Dove il terreno era più fertile, gli anelli s’intrecciavano; ma nel cerchio centrale non crescevano altre piante grandi: soltanto erbe, muschi e felci. I cerchi più vecchi esaurivano a tal punto il terreno centrale che sprofondava, formando una cavità che si riempiva di pioggia e dell’acqua delle vene sotterranee, e allora il cerchio dei vecchi e altissimi alberi rossoscuri si rispecchiava nell’immota acqua di uno stagno centrale. Il centro di un cerchio d’alberi era sempre tranquillo. I cerchi più vecchi, con uno stagno al centro, erano i più tranquilli e i più strani.

La Casa delle Riunioni di Shantih sorgeva fuori dal paese, in una valletta che conteneva uno di questi cerchi: quarantasei alberi che innalzavano il tronco simile a una colonna e la bronzea chioma intorno a uno stagno rotondo, agitato dalla pioggia o ingrigito dalle nubi o illuminato dal sole che balenava tra le rosse fronde da un cielo rasserenato per breve tempo. Le radici si stendevano nodose sul bordo dell’acqua, formando sedili per i contemplatori solitari. Nel cerchio della Casa delle Riunioni viveva una coppia di aironi. L’airone del pianeta Victoria non era un airone: non era neppure un uccello. Per descrivere il loro mondo nuovo, gli esuli avevano a disposizione soltanto le parole del vecchio mondo. Gli esseri che vivevano in riva agli stagni, una coppia per ciascuno, erano ittiofagi grigiopallidi, dalle zampe a trampolo: perciò erano aironi. La prima generazione sapeva che non erano veri aironi, che non erano né uccelli né rettili né mammiferi. Le generazioni successive non sapevano cosa non erano, ma in un certo senso sapevano cos’erano: erano aironi.

Sembrava che vivessero quanto gli alberi. Nessuno aveva mai visto un piccolo di airone o un uovo. A volte danzavano; ma se alla danza seguiva un accoppiamento, questo avveniva nel segreto della notte. Silenziosi, angolosi, eleganti, facevano il nido tra i mucchi di rosse foglie, tra le radici, e pescavano nell’acqua poco profonda, e fissavano gli esseri umani con i grandi occhi rotondi, incolori come l’acqua. Non avevano paura dell’uomo, ma non si lasciavano avvicinare.

I coloni di Victoria non si erano mai imbattuti in grossi animali terricoli. L’erbivoro più grande era il coniglio, un animale grasso e lento, abbastanza simile a un vero coniglio ma coperto di squame impermeabili; il predatore più grande era la larva, dagli occhi rossi e dai denti di squalo, lunga mezzo metro. In cattività, le larve mordevano e stridevano in preda a una frenesia demenziale finché morivano; i conigli rifiutavano di mangiare, si accucciavano tranquillamente, e morivano. Nel mare c’erano animali grossi: ogni estate le «balene» venivano nella baia di Songe e gli uomini le catturavano per mangiarle; al largo erano state avvistate bestie ancora più grandi delle balene, enormi, come isole guizzanti. Le balene non erano balene, ma nessuno sapeva cosa fossero quei mostri. Non si avvicinavano mai ai pescherecci. Anche le bestie delle pianure e delle foreste non si avvicinavano mai. Non fuggivano. Si tenevano a distanza. Stavano per un po’ a guardare, con occhi limpidi, e poi si allontanavano ignorando gl’intrusi.

Soltanto i farfalloidi dalle ali colorate, e i cose, accettavano di avvicinarsi. Se lo si chiudeva in gabbia, un farfalloide ripiegava le ali e moriva; ma se gli si offriva del miele, si stabiliva sul tetto e vi costruiva una specie di tazza dove si raccoglieva l’acqua piovana: e poiché era semiacquatico, dormiva lì. I cosè, evidentemente, confidavano nella loro straordinaria capacità di cambiare aspetto ogni pochi attimi. A volte mostravano il desiderio di volare intorno a un essere umano, o addirittura gli si posavano addosso. Le loro metamorfosi contenevano un elemento d’illusione ottica, forse d’ipnosi, e a volte Lev si chiedeva se i cosè amavano servirsi degli umani per esercitarsi nei loro trucchi. Ma se si metteva in gabbia un cosè, si mutava in un grumo scuro e informe come una zolla, e moriva dopo tre o quattro ore.

Nessun animale di Victoria si lasciava addomesticare o accettava di vivere con l’uomo. Nessuno l’avvicinava. Lo sfuggivano, guizzando via nelle foreste ombrose e profumate, o nel mare profondo, o nella morte. Non avevano nulla da spartire con l’uomo. L’uomo era un estraneo. Un intruso.

— Io avevo un gatto — aveva raccontato la nonna di Lev, molto tempo prima. — Un grosso gatto grigio col pelo più morbido della seta arborea. Aveva striature nere sulle zampe, e occhi verdi. Mi saltava sulle ginocchia e mi appoggiava il naso sotto l’orecchio, per farsi sentire, e faceva le fusa, così… — La vecchia emetteva un suono profondo, rombante, che il bambino ascoltava estatico.

— Cosa diceva quando aveva fame, nonna? — E Lev tratteneva il respiro.

— Mrrauu! Mrrauu!

La nonna rideva, e rideva anche Lev.

Erano soli. Le voci, i volti, le mani, le braccia affettuose. Gli altri erano gli altri, estranei.

Aldilà della porta, aldilà dei piccoli campi arati, c’era il territorio disabitato, l’interminabile mondo di colline e di fronde rosse e di nebbia, dove non risuonava mai una voce. Parlare, qualunque cosa si dicesse, era come annunciare «sono un estraneo».

— Un giorno — disse il bambino, — andrò a esplorare tutto il mondo.

Era una sua idea nuova, quella, e lui non pensava ad altro. Avrebbe disegnato le carte e tutto quanto. Ma la nonna non ascoltava. Aveva quell’espressione triste. Lui sapeva cosa fare. Si avvicinò, senza far rumore, e le appoggiò la faccia contro il collo, sotto l’orecchio.

— Prrrr…

— È il mio gatto Mino? Ciao, Mino! Oh — disse la nonna — Non è Mino, è Levuchka! Che sorpresa!

Lui le si sedette sulle ginocchia. Le vecchie braccia brune lo cinsero. Ai polsi la nonna portava due bracciali di steatite rossa. Glieli aveva intagliati suo figlio Alexander: Sasha, il padre di Lev. — Manette — aveva detto, quando glieli aveva regalati per il compleanno. — Manette di Victoria, mamma. — E tutti gli adulti avevano riso, ma la nonna aveva quell’espressione triste anche se rideva.

— Nonna, Mino si chiamava proprio Mino?

— Ma certo, scioccherello.

— Perché?

— Perché era il nome che gli avevo dato.

— Ma gli animali non hanno un nome.

— No. Qui no.

— Perché non l’hanno?

— Perché noi non li conosciamo — disse la nonna, guardando i piccoli campi arati.

— Nonna.

— Sì? — disse la morbida voce nel morbido seno contro il quale lui appoggiava l’orecchio.

— Perché non hai portato qui Mino?

— Non potevamo portare niente, sull’astronave. Niente di nostro. Non c’era posto. Del resto, Mino era già morto da molto tempo. Ero bambina quando lui era un micino, ed ero ancora bambina quando lui è diventato vecchio ed è morto. I gatti vivono soltanto pochi anni.

— Ma la gente vive a lungo.

— Oh, sì. Molto a lungo.

Lev le stava sulle ginocchia, tranquillo, fingendo di essere un gatto, col pelo grigio come la seta arborea, ma caldo. — Prrr — fece a bassa voce: e la vecchia, seduta sul gradino, lo tenne stretto e da sopra la sua testa guardò la terra dell’esilio.

E adesso, seduto sull’ampia e dura radice dell’alberanello in riva allo Stagno delle Riunioni, Lev pensò a sua nonna, al gatto, all’argentea acqua del lago Sereno, alle montagne che avrebbe voluto scalare per uscire dalla nebbia e dalla pioggia e giungere tra i ghiacci e gli splendori delle vette; pensò a molte cose, troppe. Stava immobile, ma la sua mente era irrequieta. Era venuto lì in cerca di pace, ma la sua mente turbinava dal passato al futuro e dal futuro al passato. Trovò la quiete solo per un momento. Uno degli aironi si avventurò silenzioso nell’acqua, dall’altra parte dello stagno. Alzò l’affusolata testa e guardò Lev. Lui ricambiò lo sguardo, e per un istante si lasciò prendere in quell’occhio rotondo e trasparente, privo di profondità come il cielo sgombro di nubi; e quel momento era trasparente e silenzioso, un momento al centro di tutti i momenti, l’eterno momento presente dell’animale silenzioso.