— Non ho mai camminato tanto. Neppure la metà di quella distanza, probabilmente.
— È appunto quello che volevo dire. Ti dicono che sei debole e fragile. E se lo credi, t’infurii e provi l’impulso di fare del male agli altri.
— Sì — replicò Luz, girandosi verso Vera. — Voglio fare del male agli altri. Voglio farlo, e probabilmente lo farò.
Vera restò immobile a guardarla. — Sì. — Ora aveva un tono più grave. — Se sposi un uomo come quello e vivi la sua vita, allora sono d’accordo. Tu non vuoi davvero fare del male agli altri, ma lo farai.
Luz la fissò. — È odioso — disse infine. — Odioso. Parlare così. Dire che non ho scelta, che devo fare del male agli altri, che quello che voglio non è importante.
— Invece è importante, quello che vuoi.
— Non lo è. È questo che intendo dire.
— Lo è. Ed è questo che intendo dire io. Tu scegli. Scegli di compiere o non compiere certe scelte.
Luz continuò a fissarla. Le guance le si arrossavano per la rabbia, ma le sopracciglia non erano abbassate: erano inarcate, come per la sorpresa o il timore, come se qualcosa di completamente inatteso si fosse parato davanti a lei.
Si mosse, indecisa, e uscì nel giardino, che era il cuore della casa.
Il tocco della pioggerella sul suo volto era gentile.
Le gocce che cadevano nella piccola vasca della fontana, al centro del giardino, creavano cerchi delicati e intrecciati, e ogni cerchio spariva dilatandosi: un incessante tremito di cerchi sfuggenti sulla superficie dell’acqua, nella vasca rotonda di pietra grigia.
Tutt’intorno stavano i muri e le finestre chiuse, silenziose. Il giardino era come una stanza interna della casa, recintata e protetta. Ma era una stanza senza tetto. Una stanza dove pioveva.
Luz si sentì le braccia bagnate e infreddolite. Rabbrividì. Ritornò alla porta, alla stanza semibuia dove stava Vera.
Si fermò tra Vera e la luce, e disse con voce bassa e ruvida: — Che tipo di uomo è, mio padre?
Ci fu un silenzio. — È giusto che tu me lo chieda? E che io ti risponda?… Sì, credo di sì. Cosa posso dire? È forte. È un re, un vero re.
— È soltanto una parola: non so cosa significa.
— Ci sono vecchie favole… Il figlio del re che cavalcava la tigre… Ecco, voglio dire che ha un’anima forte, una grandiosità nel cuore. Ma quando un uomo è chiuso tra muri che ha reso più forti e più alti per tutta la sua vita, forse la forza non basta. Non può uscirne.
Luz attraversò la stanza, si chinò a raccogliere la cuffietta che aveva scagliato sotto una sedia, e si rialzò senza guardare Vera, lisciando la stoffa parzialmente ricamata.
— Neppure io posso uscirne.
— Oh, no, no — disse energicamente Vera. — Tu non sei rinchiusa con lui! Non è lui a proteggere te: sei tu a proteggere lui. Quando soffia il vento, non soffia su di lui ma sui tetti e sui muri della città, che i suoi padri hanno costruito come una fortezza, una protezione contro l’ignoto. E tu sei parte della città, dei tetti e delle mura, della sua casa, casa Falco. Come il suo titolo: senhor, consigliere, Padrone. E come tutti i suoi servi e le sue guardie, tutti gli uomini e le donne cui dà ordini. Sono tutti parte della sua casa, sono i muri che lo riparano dal vento. Capisci cosa intendo? Lo dico in modo così sciocco: non so come dirlo. Ecco, credo che tuo padre potrebbe essere un grand’uomo, ma ha commesso un grave errore. Non è mai uscito sotto la pioggia.
Vera cominciò ad avvolgere il filo in matassa, scrutandolo nella fioca luce. — E quindi, siccome non vuole soffrire, fa torto a coloro che ama di più. Poi se ne rende conto, e dopotutto ne soffre.
— Ne soffre? — chiese di scatto la ragazza.
— Oh, è l’ultima cosa che scopriamo sul conto dei nostri genitori. È l’ultima cosa perché quando la scopriamo non sono più i nostri genitori: sono soltanto altre persone come noi…
Luz si sedette sul divano di giunchi e si appoggiò sul ginocchio la cuffietta, continuando a lisciarla delicatamente con due dita. Dopo un po’ disse: — Sono lieta che tu sia venuta qui.
Vera sorrise e continuò ad avvolgere il filo.
— Aspetta: ti aiuto.
Luz s’inginocchiò, svolgendo il filo dal fuso perché Vera potesse avvolgerlo regolarmente. — Sono stata stupida, a dire così. Vorrai tornare dalla tua famiglia: qui sei in carcere.
— Un carcere molto piacevole! E non ho famiglia. Certo, vorrei tornare. Per andare e venire come preferisco.
— Non ti sei mai sposata?
— C’erano tante altre cose da fare — disse Vera, sorridente e serena.
— Tante altre cose da fare! Non c’è altro da fare, per noi.
— No?
— Se una non si sposa, è una vecchia zitella. Ricama cuffiette per i bambini delle altre. Ordina alla cuoca di preparare la zuppa di pesce. E gli altri ridono di lei.
— È di questo, che hai paura? Che ridano di te?
— Sì. Moltissimo. — Luz impiegò qualche istante per districare il filo che le si era impigliato. — Non m’importa se ridono gli stupidi — disse, più calma. — Ma non mi piace essere disprezzata. E il disprezzo sarebbe meritato. Perché occorre coraggio per essere veramente una donna, tanto quanto ne occorre per essere un uomo. Ci vuole coraggio per sposarsi e mettere al mondo i figli e allevarli.
Vera la guardò in faccia. — Sì. È vero. Un grande coraggio. Ma non c’è altra scelta? Il matrimonio e la maternità oppure niente?
— E cos’altro c’è, per una donna? Cos’altro conta veramente?
Vera girò la testa e guardò il grigio giardino. Sospirò: un sospiro profondo, involontario.
— Desideravo moltissimo un figlio — disse. — Ma vedi, c’erano altre cose… che contavano. — Sorrise, vagamente. — Oh sì, è una scelta. Ma non è l’unica. Si può essere madre e anche molte altre cose. Si può fare tanto. Con la volontà e la fortuna… Io non ho avuto fortuna, o forse ho sbagliato, ho compiuto una scelta errata. Non amo i compromessi, capisci? Avevo dato il cuore a un uomo che… l’aveva dato a un’altra. Era Sasha… Alexander Shults, il padre di Lev. Oh, molto tempo fa, prima che tu nascessi. Così lui si è sposato, e io ho continuato il lavoro che sapevo fare, perché mi aveva sempre interessata, ma non c’erano altri uomini che m’interessassero. Ma anche se mi fossi sposata, avrei dovuto starmene rinchiusa in una stanza per tutta la vita? Vedi: se ce ne stiamo rinchiuse, con i bambini o senza i bambini, e lasciamo agli uomini il resto del mondo, allora naturalmente gli uomini fanno tutto e sono tutto. E perché dovrebbero? Sono soltanto la metà del genere umano. Non è giusto lasciare che facciano tutto il lavoro. Non è giusto né per loro né per noi. Inoltre… — Vera sorrise di nuovo — gli uomini mi sono simpatici, ma qualche volta… sono così stupidi, così imbottiti di teorie… Procedono solo in linea retta, e non vogliono fermarsi. E questo è pericoloso. È pericoloso lasciare tutto agli uomini, sai. È per questo che vorrei tornare a casa, almeno per una visita, per vedere cosa stanno combinando, Elia con le sue teorie e il mio caro giovane Lev con i suoi ideali. Temo che marcino troppo in fretta, troppo diritto, e che ci conducano in una trappola dalla quale non usciremo. Vedi, penso che talvolta gli uomini siano deboli e pericolosi a causa della loro vanità. Una donna ha un centro, è un centro. Ma un uomo non lo è: allunga le mani, afferra le cose e le ammucchia intorno a sé e dice: io sono questo, io sono quello, questo è me, quello è me, dimostrerò che io sono io! E può distruggere molte cose, cercando di dimostrarlo. È ciò che sto cercando di dire a proposito di tuo padre. Se fosse soltanto Luis Falco, questo basterebbe. Ma no, dev’essere il Padrone, il consigliere, il padre, e così via. Che spreco! E Lev: anche lui è terribilmente vanitoso, forse nello stesso modo. Un grande cuore, ma non sa dov’è il centro. Oh vorrei poter parlare con lui solo per dieci minuti e assicurarmi… — Vera aveva dimenticato di avvolgere il filo. Scosse tristemente la testa e abbassò sull’arcolaio uno sguardo lontano.