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Le rive si abbassarono ancora, si allontanarono, divennero più indistinte. Il fiume era un grìgio e silenzioso flusso ampio un chilometro. Il cielo si oscurava da un’occhiata all’altra. Poi, molto a sud, brillò un punto luminoso, remoto e chiaro, infrangendo l’oscurità.

Non c’era nessuno sveglio, negli abitati. Si avvicinarono attraversando le risaie, guidati dalle loro lanterne oscillanti. Aspirarono la pesante fragranza del fumo di torba nell’aria. Procedettero silenziosi come la pioggia lungo la via tra le casette addormentate, fino a quando Welcome gridò — Ehi, siamo arrivati! — e spalancò la porta di casa sua. — Sveglia, mamma! Sono io!

Cinque minuti dopo, metà del paese era in strada. Le luci si accendevano, le porte si spalancavano, i bambini saltellavano, cento voci parlavano, gridavano, interrogavano, lanciavano parole di benvenuto e di lode.

Lev andò incontro a Southwind, quando lei arrivò quasi di corsa, con gli occhi insonnoliti, un sorriso sulle labbra e uno scialle sui capelli scarmigliati. Lev tese le mani e prese le mani di lei, fermandola. Southwind lo guardò in faccia e rise. — Siete tornati, siete tornati!

Poi la sua espressione cambiò: guardò intorno, frettolosamente, girò lo sguardo sull’allegro scompiglio, e tornò a guardare Lev.

— Oh — disse. — Lo sapevo. Lo sapevo.

— Su, verso nord. A circa dieci giorni di marcia. Stavamo scendendo nella gola di un fiume. Le pietre gli sono scivolate sotto le mani. C’era un nido di scorpioni delle rocce. All’inizio sembrava che stesse bene. Ma c’erano decine di punture. Le mani gli si sono gonfiate…

Lev strinse le mani della ragazza; lei continuò a guardarlo negli occhi.

— È morto durante la notte.

— Ha sofferto molto?

— No — rispose Lev, mentendo.

Gli occhi di lei si riempirono di lacrime.

— Adesso è là — disse lui. — Gli abbiamo fatto un tumulo di macigni bianchi. Vicino a una cascata. Adesso… adesso è là.

Dietro di loro, tra il chiasso e il chiacchiericcio, si levò chiara una voce di donna: — Ma dov’è Timmo?

Le mani di Southwind divennero inerti nelle mani di Lev; lei parve rimpicciolire, rattrappirsi, ritirarsi.

— Vieni con me — disse lui, e cingendole le spalle con un braccio la condusse in silenzio alla casa di sua madre.

La lasciò là, con la madre e con la madre di Timmo. Uscì dalla casa e si fermò esitando, poi ritornò a passo lento verso la folla. Suo padre gli venne incontro: alla luce delle torce Lev ne vide i grigi capelli ricciuti e gli occhi ansiosi. Sasha era piccolo e esile; quando si abbracciarono, Lev sentì le ossa sotto la pelle, dure e fragili.

— Eri con Southwind?

— Sì. Non posso…

Per un momento rimase abbracciato al padre, e la mano dura e magra gli accarezzò il braccio. Gli occhi gli s’inumidirono, offuscando la luce delle torce. Quando si staccò, Sasha indietreggiò e lo guardò, senza dir nulla, con gli occhi fissi e la bocca nascosta dagl’ispidi baffi grigi.

— Tu stai bene?

Sasha annuì. — Sei stanco. Vieni a casa. — Mentre s’incamminavano lungo la via, disse: — Avete trovato la terra promessa?

— Sì. Una valle. La valle di un fiume. A cinque chilometri dal mare. C’è tutto quello che ci occorre. È bellissima, dominata dalle montagne: una catena dopo l’altra, sempre più alte, più alte delle nubi, e più bianche… Non puoi immaginare quanto si debba guardare in su, per vedere le vette più alte. — Lev si era fermato.

— Ci sono montagne, fra qui e là? Fiumi?

Lev abbassò lo sguardo dalla bianca visione delle vette e fissò il padre negli occhi.

— Quanto basta per impedire che i Padroni ci seguano fin là?

Dopo un momento Lev sorrise. — Forse — disse.

S’era in pieno periodo di raccolta del riso di palude, e molti dei coltivatori non potevano venire, ma tutti gli abitati mandarono a Shantih un uomo o una donna per sentire il racconto degli esploratori e ciò che diceva la gente. Era un pomeriggio, e pioveva ancora; il grande spiazzo davanti alla Casa delle Riunioni era gremito di ombrelli confezionati con le ampie foglie rosse e cartacee dell’albero-tettoia. Sotto gli ombrelli, la gente stava in piedi o accosciata sulle stuoie di foglie, nel fango, e schiacciava le noci e chiacchierava, fino a quando suonarono i rintocchi della piccola campana bronzea della Casa delle Riunioni: allora tutti guardarono il portico, dove Vera si accingeva a parlare.

Era una donna snella con i capelli grigio-ferro, il naso sottile, gli occhi scuri e ovali. Aveva una voce forte e chiara: mentre parlava non si udiva altro suono che il sommesso picchiettio della pioggia e di tanto in tanto il pigolio di un bambino tra la folla, prontamente azzittito.

Vera diede il bentornato agli esploratori. Parlò della morte di Timmo, e brevemente, con calma, di Timmo stesso, come l’aveva visto il giorno della partenza. Parlò del viaggio di cento giorni attraverso il territorio disabitato. Avevano scoperto una grande area a nordest della baia di Songe, disse, e avevano trovato ciò che volevano trovare: il sito per una nuova colonia, e un percorso transitabile per raggiungerlo. — Molti di noi, qui — disse, — non sono entusiasti all’idea di un nuovo insediamento tanto lontano da Shantih. E fra noi ci sono anche alcuni nostri vicini della città, che forse desiderano partecipare ai nostri piani e alle nostre discussioni. È necessario considerare attentamente e discutere liberamente la questione. Quindi, lasciamo anzitutto che Andre e Lev parlino per gli esploratori e ci dicano cos’hanno visto e trovato.

Andre, un uomo timido e robusto sulla trentina, riferì il loro viaggio al nord. Aveva la voce bassa e non parlava con scioltezza, ma la folla ascoltò attentamente la sua succinta descrizione del mondo che si stendeva aldilà dei loro campi. Alcuni, verso il fondo, allungavano il collo per vedere gli uomini della città, dei quali Vera aveva annunciato educatamente la presenza. Erano vicini al portico, sei uomini in giubbetto e stivali alti: guardie del corpo dei Padroni. Portavano un lungo coltello sulla coscia e una frusta arrotolata e infilata nella cintura.

Andre concluse in un mormorio il suo racconto e lasciò il posto a Lev, un giovane snello dalle ossa robuste e dai folti e lucenti capelli neri. Anche Lev esordì con qualche esitazione, cercando a tentoni le parole per descrivere la valle che avevano scoperto e per spiegare perché la ritenevano adatta a un insediamento. Via via che parlava, la sua voce acquistò calore; cominciò a dimenticare se stesso, come se vedesse davanti a sé ciò che descriveva: l’ampia valle e il fiume che avevano chiamato Sereno, il lago più in alto, gli acquitrini dove cresceva il riso selvatico, le foreste di buon legname, gli assolati pendii dove si potevano piantare frutteti e seminare campi e dove le case sarebbero state libere dal fango e dall’umidità, parlò della foce del fiume, una baia ricca di conchiglie e di alghe commestibili; e parlò delle montagne che torreggiavano sopra la valle, a nord e a est, riparandola dai venti che rendevano così freddi e fangosi gli inverni di Songe. — Le vette s’innalzano nel silenzio e nella luce del sole, sopra le nubi — disse. — Proteggono la valle come una madre che tiene il figlioletto fra le braccia. Le abbiamo chiamate Montagne del Mahatma. Siamo rimasti là a lungo, quindici giorni, per vedere se le montagne tenevano lontano i temporali. Là l’inizio dell’autunno è come qui la mezza estate, e solo le notti sono più fredde; i giorni erano soleggiati, e non pioveva. Holdfast ha pensato che vi si possono fare tre raccolti di riso all’anno. Nelle foreste ci sono molti frutti, e la pesca nel fiume e nella baia aiuterebbe a sfamare i coloni per il primo anno, fino al primo raccolto. Le mattine sono così luminose! Non è stato soltanto per vedere come si metteva il tempo, che siamo rimasti: era difficile abbandonare quel luogo, anche per tornare a casa.