— Di vista, credo — disse Lev. Era così diverso dall’uomo del quale Luz aveva appena pronunciato il nome e la cui immagine le riempiva la mente: il volto splendido e la figura muscolosa, il torace ampio, le gambe lunghe, le mani forti, la tunica pesante, i calzoni, gli stivali, la cintura, la giubba, il moschetto, la frusta, il coltello… Quest’uomo era scalzo: lei ne vedeva le costole e lo sterno sotto la pelle scura e liscia.
— Io lo odio — disse Luz, meno concitatamente, parlando dal piccolo e fresco rifugio dove poteva pensare. — La sua anima non è più grande di un’unghia. Dovresti avere paura di lui. Io ne ho paura. Ama far soffrire gli altri. Non cercate di parlargli, come fate sempre voi. Non vi ascolterà. È pieno di sé. La sola cosa che si può fare, con un uomo simile, è di colpirlo o fuggire lontano. Io sono fuggita… Mi credi? — Ora poteva chiederlo.
Lev annuì.
Lei gli guardò le mani, posate sulla spalliera della sedia. Stringevano con forza la barra di legno. Erano nervi e ossa sotto la pelle scura, forti, fragili.
— Bene, ora devo tornare — disse lei e si alzò.
— Aspetta. Dovrai dirlo agli altri.
— Non posso. Diglielo tu.
— Ma tu hai detto che sei fuggita da Macmilan. Adesso torni da lui?
— No! Da mio padre… a casa mia…
Ma Lev aveva ragione. Era la stessa cosa.
— Sono venuta ad avvertirvi — disse lei, freddamente, — perché Macmilan vuole tendervi un tranello e merita di essere ripagato con la stessa moneta. È tutto.
Ma non era abbastanza.
Guardò oltre la porta e vide il viottolo che avrebbe dovuto percorrere, e poi la via, e la strada, poi la città e le vie, e la sua casa e suo padre…
— Non capisco — disse. Si sedette perché tremava di nuovo, non più per la paura ma per la collera. — Non ho pensato. Vera ha detto…
— Cos’ha detto?
— Ha detto di pensare.
— Ha…
— Aspetta. Devo pensare. Non l’ho fatto allora, devo farlo adesso.
Luz restò in silenzio per qualche attimo, con le mani strette in grembo.
— Ecco — riprese. — Questa è una guerra, ha detto Vera. Io dovrei… Ho tradito la fazione di mio padre. Vera è un ostaggio in mano alla città. Io dovrò essere un ostaggio in mano al paese. Se lei non può andare e venire, non posso farlo neppure io. Dev’essere così. — Il respiro le si arrestava nella gola, producendo un piccolo rantolo al termine di ogni frase.
— Noi non prendiamo ostaggi, non facciamo prigionieri…
— Non ho detto questo. Ho detto che devo restare qui. Ho scelto di restare qui. Me lo permetterai?
Lev si mosse, abbassando automaticamente la testa quando passò sotto una trave molto bassa. La sua camicia era ad asciugare su una sedia, davanti al fuoco: lui la indossò, poi entrò nell’altra stanza, ne uscì con le scarpe in mano e si sedette accanto al tavolo per infilarle. — Senti — disse mentre si chinava, — puoi restare qui. Chiunque può farlo. Non costringiamo nessuno ad andare, non costringiamo nessuno a rimanere. — Si raddrizzò, guardandola in faccia. — Ma cosa penserà tuo padre? Anche se credesse che sei qui per tua scelta…
— Non lo permetterebbe. Verrebbe a riprendermi.
— Con la forza.
— Sì, con la forza. Con Macmilan e il suo piccolo esercito, senza dubbio.
— Allora tu diventeresti il pretesto per la violenza che quelli stanno cercando. Devi tornare a casa, Luz.
— Nel vostro interesse — disse lei.
Stava semplicemente pensando a voce alta, rendendosi conto di ciò che aveva fatto e di ciò che ne sarebbe seguito. Ma Lev rimase lì immobile, tenendo in mano una scarpa: uno stivaletto basso, infangato e malconcio, notò Luz.
— Sì — disse Lev. — Nel nostro interesse. Sei venuta qui per noi. Ora torna a casa, per noi. E se scoprono che sei stata qui… — Ci fu una pausa. — No — proseguì. — Non puoi tornare. Rimarresti invischiata nelle menzogne… le tue e le loro. Sei venuta qui. Per Vera, per noi. Sei con noi.
— No, non sono con voi — ribatté Luz, irosamente. Ma la luce e il calore del volto di Lev la sconcertavano. Lui parlava in modo così chiaro, così sicuro: adesso sorrideva. — Luz — disse, — ti ricordi quando andavamo a scuola? Tu eri sempre… Avrei sempre voluto parlarti, ma non ne trovavo mai il coraggio… Una volta abbiamo parlato, al tramonto, e mi hai chiesto perché non volevo battermi con Angel e i suoi compagni. Non eri come le altre ragazze della città: quello non sembrava il tuo posto. Il tuo posto è qui. A te sta a cuore la verità. Ti ricordi come ti sei arrabbiata col maestro, una volta, quando ha detto che i conigli non vanno in letargo e Timmo ha cercato di spiegare che ne aveva trovati una quantità in letargo, in una grotta, e il maestro voleva frustarlo per la sua insolenza? Ti ricordi?
— Sì, e io ho detto che l’avrei riferito a mio padre — mormorò Luz. Era impallidita.
— Ti sei alzata e hai detto che il maestro non conosceva la verità e voleva frustare Timmo perché l’aveva detta… Avevi solo quattordici anni. Luz, ascoltami: vieni con me, adesso. Andremo a casa di Elia. Potrai raccontare quello che hai detto a me, e decideremo cosa fare. Non puoi tornare a casa e essere punita, essere svergognata! Ascolta. Puoi stare con Southwind: abita fuori dal paese, e là starai tranquilla. Ma ora vieni con me: non abbiamo tempo da perdere. — Lev le tese la mano attraverso il tavolo, quella mano calda, piena di vita: Luz la prese, e incontrò i suoi occhi con occhi pieni di lacrime. — Non so cosa fare — disse piangendo. — Hai messo una scarpa sola, Lev.
VIII
Per quanto ci fosse poco tempo, bisognava radunare l’intera comunità per decidere il da farsi, per non mollare. La fretta tornava a loro favore perché forse, senza una pressione, i pavidi e i meno convinti si sarebbero staccati: davanti alla minaccia di un attacco imminente, invece, tutti erano ansiosi di trovare e mantenere un centro, la forza del gruppo.
Un centro c’era: e quel centro era lui, con Andre, Southwind, Martin, Italia, Santha e tutti gli altri, i giovani, i decisi. Vera non era presente eppure c’era, in tutte le loro decisioni, con la sua gentilezza e la sua incrollabile fermezza. Elia non c’era: lui e Jewel e molti altri, quasi tutti anziani, stavano in disparte: dovevano stare in disparte perché il loro volere non era quello della comunità. Elia non era mai stato del tutto favorevole al piano di emigrazione; e adesso sosteneva che si erano spinti troppo oltre e che la ragazza doveva essere rimandata subito dal padre, con una delegazione che si sarebbe «seduta intorno a un tavolo a parlare col Consiglio: se parleremo tra noi, non ci sarà motivo per questa sfiducia, per queste sfide…».
— Gli uomini armati non si siedono intorno a un tavolo a parlare, Elia — disse stancamente il vecchio Lione.
Non era a Elia che si rivolgevano i giovani ma a «quelli di Vera». Lev si sentiva sostenuto dalla forza dei suoi amici e dell’intera comunità. Gli sembrava di non essere un solo Lev ma mille: se stesso, sì, ma se stesso immensamente accresciuto, potenziato, un’individualità senza confini fusa con tutte le altre individualità, libera come un uomo solo non avrebbe mai potuto essere libero.
Non c’era quasi bisogno di consultarsi, di spiegare alla gente cosa si doveva fare, d’illustrare la massiccia e paziente resistenza che andava opposta alla violenza della città. Lo sapevano già tutti: pensavano per lui, e lui per loro: le sue parole enunciavano la loro volontà.
La giovane Luz, l’estranea, l’esule volontaria: la sua presenza a Shantih accresceva per contrasto quel senso di comunità perfetta e lo colorava di compassione. Sapevano perché era venuta e cercavano di essere gentili con lei. Era sola in mezzo a loro, spaventata e sospettosa, e ogni volta che non capiva si chiudeva nell’orgoglio e nell’arroganza di figlia di un Padrone. Ma capiva, pensò Lev, anche se la sua ragione la confondeva: capiva col cuore, perché era venuta tra loro, fiduciosamente.