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— Nonna, Mino si chiamava proprio Mino?

— Ma certo, scioccherello.

— Perché?

— Perché era il nome che gli avevo dato.

— Ma gli animali non hanno un nome.

— No. Qui no.

— Perché non l’hanno?

— Perché noi non li conosciamo — disse la nonna, guardando i piccoli campi arati.

— Nonna.

— Sì? — disse la morbida voce nel morbido seno contro il quale lui appoggiava l’orecchio.

— Perché non hai portato qui Mino?

— Non potevamo portare niente, sull’astronave. Niente di nostro. Non c’era posto. Del resto, Mino era già morto da molto tempo. Ero bambina quando lui era un micino, ed ero ancora bambina quando lui è diventato vecchio ed è morto. I gatti vivono soltanto pochi anni.

— Ma la gente vive a lungo.

— Oh, sì. Molto a lungo.

Lev le stava sulle ginocchia, tranquillo, fingendo di essere un gatto, col pelo grigio come la seta arborea, ma caldo. — Prrr — fece a bassa voce: e la vecchia, seduta sul gradino, lo tenne stretto e da sopra la sua testa guardò la terra dell’esilio.

E adesso, seduto sull’ampia e dura radice dell’alberanello in riva allo Stagno delle Riunioni, Lev pensò a sua nonna, al gatto, all’argentea acqua del lago Sereno, alle montagne che avrebbe voluto scalare per uscire dalla nebbia e dalla pioggia e giungere tra i ghiacci e gli splendori delle vette; pensò a molte cose, troppe. Stava immobile, ma la sua mente era irrequieta. Era venuto lì in cerca di pace, ma la sua mente turbinava dal passato al futuro e dal futuro al passato. Trovò la quiete solo per un momento. Uno degli aironi si avventurò silenzioso nell’acqua, dall’altra parte dello stagno. Alzò l’affusolata testa e guardò Lev. Lui ricambiò lo sguardo, e per un istante si lasciò prendere in quell’occhio rotondo e trasparente, privo di profondità come il cielo sgombro di nubi; e quel momento era trasparente e silenzioso, un momento al centro di tutti i momenti, l’eterno momento presente dell’animale silenzioso.

L’airone si voltò e piegò la testa, ispezionando la scura acqua in cerca di pesci.

Lev si alzò, cercando di muoversi silenziosamente e agilmente come l’airone; lasciò il cerchio d’alberi, passando tra due enormi tronchi rossi. Fu come varcare una porta ed entrare in un luogo completamente diverso. La valle poco profonda era illuminata dal sole, il cielo era ventoso e vivo; il sole indorava il rosso tetto della Casa delle Riunioni, che sorgeva sul declivio volto a sud. C’erano già molte persone, sui gradini o sotto il portico, e parlavano. Lev affrettò il passo. Avrebbe voluto correre, gridare. Non c’era tempo per il silenzio. Quella era la prima mattina della battaglia, l’inizio della vittoria.

Andre lo chiamò: — Vieni! Tutti aspettano Padrone Lev!

Lui rise, e corse; salì in due balzi i sei gradini. — Bene, bene, bene — disse. — Sam! Che razza di disciplina è questa? — Sam, un uomo bruno e robusto che portava soltanto un paio di calzoni bianchi, stava tranquillamente ritto sulla testa accanto alla ringhiera del portico.

Elia si assunse la direzione della riunione. Non entrarono. Si sedettero sotto il portico a parlare, perché la luce del sole era piacevole. Elia era serio, come sempre; ma l’arrivo di Lev aveva rallegrato gli altri, e la discussione fu vivace ma breve. Il senso della riunione divenne chiaro quasi subito. Elia voleva che un’altra delegazione andasse in città a parlare con i Padroni, ma nessuno era d’accordo: volevano un’assemblea generale degli abitanti di Shantih. Decisero che si svolgesse prima del tramonto, e i più giovani s’impegnarono ad avvertire le comunità e le fattorie più lontane. Mentre Lev stava per andarsene, Sam — che aveva continuato tranquillamente a starsene ritto sulla testa durante la discussione — si rimise in piedi con un movimento elegante e gli disse, sorridendo: — Arjuna, sarà una grande battaglia.

Lev, che pensava a cento altre cose, sorrise a Sam e se ne andò.

La campagna intrapresa dagli abitanti di Shantih era per loro una cosa nuova, e tuttavia familiare. Tutti, nella scuola del paese e nella Casa delle Riunioni, ne avevano imparato i principii e le tattiche: conoscevano le vite degli eroi-filosofi Gandhi e King, e la storia del Popolo della Pace, e le idee che avevano ispirato quelle vite e quella storia. In esilio, il Popolo della Pace aveva continuato a vivere secondo quelle idee: e finora c’era riuscito. Almeno si erano mantenuti indipendenti, addossandosi tutta l’attività agricola della comunità e dividendo gratuitamente con la città i prodotti. In cambio la città forniva loro attrezzi e macchinari delle ferriere governative, pesce pescato dalla flottiglia, e vari altri prodotti che la colonia primogenita poteva realizzare con maggior facilità. Era stata una soluzione soddisfacente per gli uni e per gli altri.

Ma a poco a poco le condizioni dell’accordo erano diventate troppo disuguali. Shantih coltivava le piante di lancotone e gli alberi della seta, e portava la materia prima alle filande della città. Ma le filande erano molto lente: se gli abitanti del paese avevano bisogno di abiti, era meglio che filassero e tessessero direttamente le stoffe. I pesci freschi e disseccati che si aspettavano non arrivavano mai. Pesca magra, spiegava il Consiglio. Gli attrezzi non venivano sostituiti. La città li aveva forniti ai contadini: se questi li rompevano spettava a loro rimpiazzarli, diceva il Consiglio. Era continuato così, abbastanza gradualmente perché non scoppiassero crisi. Gli abitanti di Shantih si adattavano e si arrangiavano. I figli e i nipoti degli esuli, ormai adulti, non avevano mai visto in azione la tecnica del conflitto e della resistenza, che era la forza unificatrice della loro comunità.

Ma l’avevano appresa: lo spirito, le ragioni e le regole. L’avevano appresa e messa in pratica nei piccoli conflitti che insorgevano nell’ambito della loro stessa comunità. Avevano visto i loro anziani pervenire alla soluzione dei problemi e dei dissidi, a volte con un dibattito appassionato e a volte per un consenso quasi tacito. Avevano imparato ad ascoltare il senso dell’assemblea, non la voce più alta. Avevano imparato che dovevano giudicare ogni volta se l’ubbidienza era necessaria e giusta o inopportuna e sbagliata. Avevano imparato che l’atto di violenza è un atto di debolezza, e che la forza dello spirito consiste nel sostenere con fermezza la verità.

O almeno credevano in tutto ciò, e credevano di averlo imparato aldilà di ogni ombra di dubbio. Nessuno di loro, nonostante le provocazioni, avrebbe fatto ricorso alla violenza. Erano sicuri, ed erano forti.

— Questa volta non sarà facile — aveva detto loro Vera prima di partire insieme agli altri per la città. — Lo sapete: non sarà facile.

Loro avevano annuito sorridendo, e l’avevano applaudita. Certo, non sarebbe stato facile. Le vittorie troppo facili non contano.

Passando da una fattoria all’altra, a sudovest di Shantih, Lev invitava la gente a recarsi alla grande assemblea, e rispondeva alle domande su Vera e gli altri ostaggi. Alcuni avevano paura di ciò che avrebbero potuto fare gli uomini della città, e Lev disse: — Sì, possono fare di peggio che prendere qualche ostaggio. Non possiamo aspettarci che siano d’accordo con noi, quando noi non siamo d’accordo con loro. Ci sarà una lotta.

— Ma loro, quando lottano, usano i coltelli… E c’è… c’è quel posto per le fustigazioni, lo sai — disse una donna, abbassando la voce. — Dove puniscono i ladri… — Non finì la frase. Tutti gli altri erano imbarazzati, vergognosi.

— Sono prigionieri nel cerchio della violenza che li ha portati qui — replicò Lev. — Noi non lo siamo. Se saremo incrollabili, tutti uniti, capiranno la nostra forza, capiranno che è più grande della loro. — La sua espressione e la sua voce erano così ottimistiche, mentre parlava, che i coltivatori capivano che stava dicendo la verità, e cominciavano ad attendere con ansia l’imminente confronto con la città anziché temerlo. Due fratelli che portavano nomi tratti dalla Lunga Marcia, Lione e Pamplona, erano più esaltati degli altri: Pamplona, che era un sempliciotto, seguì Lev da una fattoria all’altra, per il resto della mattinata, per ascoltare dieci volte i Piani della Resistenza.