Non aveva alzato la voce: ma tutti gli altri, guardie e uomini del villaggio, si erano accorti del diverbio. Molti si erano alzati, lasciando i fuochi, a gruppetti, anneriti dal fango, con i capelli fradici che spiovevano sulla fronte. Trascorse qualche secondo, mezzo minuto al massimo, lunghissimo e silenzioso a parte il suono della pioggia sul terreno e sull’intrico di cespugli che digradavano verso il fiume e sulle fronde degli alberi di lancotone in riva all’acqua, un immenso picchiettare fine e sommesso.
Gli occhi del capitano, che cercavano di sorvegliare contemporaneamente tutto (i suoi uomini, i contadini, il mucchio di utensili), incontrarono gli occhi di Lev.
— Siamo a un punto morto, senhor — disse il giovane, quasi sottovoce. — Allora?
— Dì che si mettano al lavoro.
— Bene! — Lev si voltò. — Rolf, Adi, perché non preparate una barella? Voi e due uomini della città porterete Pamplona a Shantih. Thomas e Sun verranno con voi. Gli altri riprenderanno il lavoro, d’accordo? — Lev e gli altri sfilarono davanti al mucchio degli attrezzi, presero zappe e vanghe e senza affrettarsi scesero il pendio, attaccando i grovigli di rovi e sradicando i cespugli.
Il capitano Eden, con un senso di freddo alla bocca dello stomaco, si voltò verso i suoi uomini. I due ai quali poco prima stava dando ordini erano i più vicini.
— Scorterete i malati al loro villaggio, prima di andare in città. E tornate prima di notte con due contadini robusti. Capito? — Vide che Angel lo guardava, col moschetto tra le mani. — Tenente, tu va’ con loro — disse, deciso. Le due guardie salutarono, inespressive; lo sguardo di Angel era insolente.
Quella sera, accanto al fuoco, Lev e tre contadini tornarono dal capitano. — Senhor — disse uno dei più anziani, — abbiamo deciso, vedi, che lavoreremo qui una settimana, per la comunità, se anche voi della città lavorerete insieme a noi. Non va, capisci, che voialtri venti o trenta ve ne stiate lì a far niente mentre noi fatichiamo.
— Riporta questi uomini al loro posto, Martin! — disse il capitano a una guardia. La guardia avanzò, con la mano sull’impugnatura della frusta. I contadini si scambiarono occhiate, scrollarono le spalle e tornarono al loro fuoco. L’importante, si disse il capitano Eden, era di non parlare, non lasciare che quelli parlassero. Venne la notte, nera e piovosa. In città non aveva mai piovuto così: là c’erano i tetti. Il rumore della pioggia era terribile in quell’oscurità che li circondava per chilometri e chilometri di territorio nero e selvaggio. I fuochi crepitavano e si spegnevano. Le guardie si rannicchiavano irritate sotto gli alberi, piantando il moschetto nel fango, e imprecavano e tremavano. Quando venne l’alba, i contadini non c’erano più. Si erano dileguati durante la notte, sotto la pioggia. Erano scomparse anche quattordici guardie.
Pallido, arrochito, sconfitto, furioso, il capitano Eden radunò gli uomini che erano rimasti e ripartì verso la città. Avrebbe perso il grado, forse sarebbe stato frustato o mutilato per quel fallimento, ma al momento non gliene importava. Non gl’importava cosa gli avrebbero fatto, a meno che fosse una condanna all’esilio. Senza dubbio avrebbero capito che non era stata colpa sua, che nessuno avrebbe potuto svolgere quel compito. L’esilio era raro, era la punizione per i delitti più gravi come il tradimento o l’assassinio di un Padrone: i colpevoli venivano cacciati dalla città, portati con una barca molto lontano, sulla costa, e abbandonati nel territorio disabitato, completamente soli, e se fossero tornati in città sarebbero stati torturati e uccisi. Ma nessuno era mai tornato: erano morti soli, sperduti, nel terribile vuoto indifferente, nel silenzio. Il capitano Eden ansimava, camminando, e i suoi occhi cercavano i tetti della città.
Nel buio e sotto la pioggia torrenziale gli abitanti dei villaggi avevano dovuto seguire la Strada Sud: si sarebbero smarriti subito se avessero cercato di disperdersi tra le colline. Era già abbastanza difficile seguire la strada, una pista tracciata dai passi dei pescatori e solcata a volte dai carri che trasportavano il legname. Dovettero procedere lentamente, brancolando, finché la pioggia divenne meno fitta e giunse un po’ di luce. Quasi tutti si erano dileguati nelle ore dopo la mezzanotte, e alle prime luci erano ancora a metà del percorso. Sebbene temessero di essere inseguiti, restavano sulla strada per procedere più in fretta. Lev era partito con l’ultimo gruppo e adesso, volutamente, restava indietro rispetto agli altri. Se vedeva arrivare le guardie avrebbe potuto dare l’allarme, e gli altri si sarebbero dispersi nel sottobosco. Non era necessario che lo facesse, perché tutti si voltavano spesso a guardare indietro: ma era una scusa per rimanere solo. Non voleva stare con gli altri, non voleva parlare. Voleva star solo mentre l’umida alba argentea spuntava sulle colline a oriente; voleva camminare solo, con la vittoria.
Avevano vinto. Era andata. Avevano vinto la loro battaglia, senza violenza. Nessun morto: un solo ferito. Gli «schiavi» si erano liberati senza minacciare e senza sferrare un colpo; i Padroni tornavano precipitosamente dai loro Padroni a riferire il fallimento, e forse a chiedersi perché avevano fallito, e forse avrebbero cominciato a capire, a intravedere la verità… Erano uomini abbastanza onesti, il capitano e gli altri: quando, finalmente, avessero intravisto la libertà, l’avrebbero abbracciata. E alla fine la città si sarebbe unita al paese. Quando le guardie li avessero abbandonati, i Padroni avrebbero smesso di giocare al governo, avrebbero rinunciato alla pretesa di dominare altri uomini. Anche loro, più lentamente dei lavoratori, avrebbero finito col capire che per essere liberi dovevano abbandonare le armi e le difese e venire tra gli altri, uguali tra uguali, fratelli. E allora il sole sarebbe sorto veramente sulla comunità umana di Victoria, così come ora, sotto la pesante massa di nubi sulle colline, la luce argentea del mattino stava dilagando, e ogni ombra balzava nera attraverso la stretta strada, e ogni pozzanghera lasciata dalla pioggia della notte balenava come il riso di un bambino.
"E sono stato io", pensò Lev con gioia incredula, "sono stato io a parlare per loro: si sono rivolti a me, io non li ho delusi. Abbiamo tenuto duro! Oh, mio Dio, quando Angel ha sparato in aria, e io ho creduto di essere morto, e poi ho creduto di essere diventato sordo! Ma ieri, col capitano, non ho pensato ’e se sparasse?’ perché sapevo che non avrebbe mai alzato il moschetto e lui sapeva che il moschetto era inutile… Se c’è qualcosa che va fatta, si può fare. Si può tener duro. Io ce l’ho fatta, tutti ce l’abbiamo fatta. Oh, mio Dio, quanto li amo, li amo tutti. Non sapevo, non sapevo che ci fosse tanta felicità al mondo!"
Proseguì a grandi passi verso casa, nell’aria luminosa, e la pioggia caduta scoppiava in fresche risatine intorno ai suoi piedi.