VIII
Per quanto ci fosse poco tempo, bisognava radunare l’intera comunità per decidere il da farsi, per non mollare. La fretta tornava a loro favore perché forse, senza una pressione, i pavidi e i meno convinti si sarebbero staccati: davanti alla minaccia di un attacco imminente, invece, tutti erano ansiosi di trovare e mantenere un centro, la forza del gruppo.
Un centro c’era: e quel centro era lui, con Andre, Southwind, Martin, Italia, Santha e tutti gli altri, i giovani, i decisi. Vera non era presente eppure c’era, in tutte le loro decisioni, con la sua gentilezza e la sua incrollabile fermezza. Elia non c’era: lui e Jewel e molti altri, quasi tutti anziani, stavano in disparte: dovevano stare in disparte perché il loro volere non era quello della comunità. Elia non era mai stato del tutto favorevole al piano di emigrazione; e adesso sosteneva che si erano spinti troppo oltre e che la ragazza doveva essere rimandata subito dal padre, con una delegazione che si sarebbe «seduta intorno a un tavolo a parlare col Consiglio: se parleremo tra noi, non ci sarà motivo per questa sfiducia, per queste sfide…».
— Gli uomini armati non si siedono intorno a un tavolo a parlare, Elia — disse stancamente il vecchio Lione.
Non era a Elia che si rivolgevano i giovani ma a «quelli di Vera». Lev si sentiva sostenuto dalla forza dei suoi amici e dell’intera comunità. Gli sembrava di non essere un solo Lev ma mille: se stesso, sì, ma se stesso immensamente accresciuto, potenziato, un’individualità senza confini fusa con tutte le altre individualità, libera come un uomo solo non avrebbe mai potuto essere libero.
Non c’era quasi bisogno di consultarsi, di spiegare alla gente cosa si doveva fare, d’illustrare la massiccia e paziente resistenza che andava opposta alla violenza della città. Lo sapevano già tutti: pensavano per lui, e lui per loro: le sue parole enunciavano la loro volontà.
La giovane Luz, l’estranea, l’esule volontaria: la sua presenza a Shantih accresceva per contrasto quel senso di comunità perfetta e lo colorava di compassione. Sapevano perché era venuta e cercavano di essere gentili con lei. Era sola in mezzo a loro, spaventata e sospettosa, e ogni volta che non capiva si chiudeva nell’orgoglio e nell’arroganza di figlia di un Padrone. Ma capiva, pensò Lev, anche se la sua ragione la confondeva: capiva col cuore, perché era venuta tra loro, fiduciosamente.
Quando glielo disse, quando le disse che in spirito era ed era sempre stata una del Popolo della Pace, lei assunse quell’espressione sdegnosa. — Non so neppure quali siano le vostre idee — replicò. Ma in realtà aveva imparato molto da Vera; e durante quegli strani e inattivi giorni di tensione, nell’attesa di una notizia o di un attacco dalla città, mentre il lavoro normale era sospeso e «quelli di Vera» stavano molto insieme, Lev parlò con lei più spesso che poteva, desideroso di condurla completamente tra loro, nel centro dove c’erano tanta pace e tanta forza e dove nessuno era solo.
— È molto noioso, in verità — le spiegò. — Una specie di elenco di regole, come a scuola. Prima fai questo e poi fai quello. Prima cerchi il negoziato, un arbitrato per il problema, quale che sia, con i mezzi e le istituzioni esistenti. Cerchi di discuterne, come continua a insistere Elia. È stato quando il gruppo di Vera è andato a parlare col Consiglio, capisci? Non è servito a nulla. Allora passi alla seconda fase: non collaborazione. Ti metti lì e non fai niente, in modo da far capire che dicevi sul serio. Ora siamo a questo punto. Poi c’è la terza fase, che stiamo preparando adesso: un ultimatum. Un appello finale, l’offerta di una soluzione costruttiva, e una spiegazione chiara di ciò che verrà fatto se la soluzione non viene concordata subito.
— E cosa farete, se loro non accetteranno?
— Passeremo alla quarta fase. Disubbidienza civile.
— Cos’è?
— Il rifiuto di ubbidire a qualunque ordine o legge emanati dall’autorità contestata. Costituiamo una nostra autorità, parallela e indipendente, e seguiamo per la nostra strada.
— Così?
— Così — disse lui, sorridendo. — Sulla Terra, sai, ha funzionato molte volte. Contro ogni genere di minacce e di arresti, di torture e di attacchi. Puoi leggere la Storia della Mirovskaya…
— Non so leggere i libri — replicò Luz, con quella sua aria sdegnosa. — Una volta ho provato… Se funzionava tanto bene, perché vi hanno esiliati dalla Terra?
— Non eravamo abbastanza numerosi. I governi erano troppo potenti. Ma non ci avrebbero mandati in esilio, vero, se non avessero avuto paura di noi?
— È quello che dice mio padre dei suoi antenati — osservò Luz. Aveva le sopracciglia contratte sugli occhi scuri e pensosi. Lev la scrutò, ammutolito per un momento dal suo silenzio, affascinato dalla sua stranezza. Perché, sebbene lui insistesse nel dirle che era una di loro, Luz non lo era: non era come Southwind, come Vera, come tutte le altre donne che Lev conosceva. Era diversa, estranea. Come l’airone grigio dello Stagno delle Riunioni, in lei c’era un silenzio: un silenzio che lo attirava, lo attirava verso un centro diverso.
Era così intento a guardarla che, sebbene Southwind avesse detto qualcosa, non la udì: e quando Luz riprese a parlare, lui trasalì, e per un momento la stanza della casa di Southwind gli sembrò un luogo estraneo, alieno.
— Vorrei che potessimo dimenticare tutto — disse Luz. — La Terra… Cent’anni fa, un mondo diverso, un altro sole… Che importanza ha, qui, per noi? Ora siamo qui. Perché non possiamo fare le cose a modo nostro? Io non vengo dalla Terra. Tu non vieni dalla Terra. Questo è il nostro mondo… Dovrebbe avere un suo nome. «Victoria» è stupido, è una parola terrestre. Dovremmo dargli un nome tutto suo.
— Quale?
— Un nome che non significa nulla. Ubu, o Baba. Oppure Fango. È tutto fango… Se la Terra si chiama «terra», perché questo mondo non si può chiamare «fango»? — Luz sembrava incollerita, come avveniva spesso: ma quando Lev rise, rise anche lei. Southwind si limitò a sorridere, ma disse con quella sua voce sommessa : — Sì, è giusto. E allora potremmo farne un mondo nostro, invece d’imitare sempre quello che facevano sulla Terra. Se non ci fosse violenza non sarebbe necessario che esistesse la nonviolenza…
— Partire dal fango e costruire un mondo — osservò Lev. — Ma non capisci che è ciò che stiamo facendo?
— Torte di fango — disse Luz.
— No, costruiamo un nuovo mondo.
— Con i frammenti di quello vecchio.
— Se la gente dimentica ciò che è accaduto in passato, deve ricominciare da capo e non arriva mai al futuro. Per questo continuavano a fare le guerre, sulla Terra. Dimenticavano cos’era stata l’ultima. Noi stiamo cominciando. Perché ricordiamo i vecchi errori, e non li commetteremo.
— Qualche volta mi sembra, — aggiunse Andre, che era seduto sul focolare e riparava un sandalo di Southwind (la sua attività secondaria era quella di ciabattino), — se non ti dispiace che lo dica, Luz, mi sembra che in città ricordino tutti i vecchi errori per poterli commettere di nuovo.
— Non so — replicò lei, indifferente. Si alzò e andò alla finestra. Era chiusa, perché la pioggia non era cessata, faceva più freddo e soffiava un vento da est. Il fuocherello, nel camino, dava luce e calore alla stanza. Luz voltava le spalle a quel tepore, guardando attraverso i piccoli vetri annebbiati gli scuri campi e le nubi spinte dal vento.