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La mattina dopo il suo arrivo a Shantih, dopo aver parlato con Lev e gli altri, aveva scritto una lettera a suo padre. Una lettera breve, sebbene avesse impiegato l’intera mattina per scriverla. L’aveva mostrata prima a Southwind e poi a Lev. Ora, mentre Lev guardava Luz, mentre guardava quella figura forte ed eretta, nera contro la luce, gli parve di rivedere la lettera, con i neri tratti rigidi. Luz aveva scritto:

Onorato signore!

Ho lasciato la nostra casa. Resterò a Shantih perché non approvo i suoi piani. Io ho deciso di andarmene ed io ho deciso di restare. Nessuno mi tiene prigioniera ,o in ostaggio. Questa gente mi ospita. Se Lei li maltratterà, io non sarò al suo fianco. Ho dovuto compiere questa scelta. Ha commesso un errore con H. Macmilan. La senhora Adelson non c’entra con la mia venuta qui. È stata una mia scelta.

Rispettosamente, sua figlia

Luz Marina Falco Cooper

Non una parola d’affetto, non una richiesta di perdono.

E niente risposta. La lettera era stata portata subito da un corriere, il giovane Welcome: l’aveva infilata sotto la porta di casa Falco e se n’era andato. Appena era ritornato a Shantih, Luz aveva incominciato ad attendere la risposta di suo padre, a temerla ma anche — visibilmente — ad aspettarla. Erano passati due giorni. La risposta non era arrivata; non c’erano stati attacchi, di notte: niente. Tutti avevano discusso i cambiamenti che la defezione di Luz poteva aver causato nei piani di Falco: ma non ne discutevano davanti a lei, a meno che fosse lei stessa a parlarne.

Ora Luz disse: — Non capisco le vostre idee, davvero. Tutte le fasi, tutte le regole, tutto quel parlare.

— Sono le nostre armi — spiegò Lev.

— Ma perché combattere?

— Non c’è altra scelta.

— Sì, c’è. Andarsene.

— Andarsene?

— Sì! Andare a nord, nella valle che avete scoperto. Andarsene. Come ho fatto io — aggiunse Luz, guardandolo imperiosamente perché lui non aveva risposto subito. — Io me ne sono andata.

— E verranno a cercarti — disse lui, gentilmente.

Luz scrollò le spalle. — Non l’hanno fatto. Non se ne curano.

Southwind fece udire un mormorio, di protesta, di simpatia: il mormorio diceva tutto ciò che era necessario dire, ma Lev lo tradusse: — Se ne curano, Luz, e verranno. Tuo padre…

— Se verrà a cercarmi, andrò ancora più lontano.

— Dove?

Luz si voltò di nuovo, senza dir nulla. Tutti avevano pensato la stessa cosa: il territorio disabitato. Fu come se quel territorio selvaggio entrasse nella casetta, come se le pareti cadessero senza lasciare un riparo. Lev c’era stato, Andre c’era stato, per quei mesi d’infinita solitudine senza voci: adesso era nelle loro anime e non potevano mai sottrarsene completamente. Southwind non era stata nei territori selvaggi, ma là giaceva sepolto il suo amore. Anche Luz, che non li aveva mai visti o conosciuti, figlia di coloro che da cent’ànni erigevano le loro mura contro quella solitudine, negandola, li conosceva e li temeva, sapeva che era assurdo parlare di andarsene da sola dalla colonia. Lev l’osservava in silenzio. Provava compassione per lei, come per una bambina sofferente e ostinata che rifiuta ogni conforto, se ne sta in disparte e non piange. Ma non era una bambina. Era una donna quella che lui vedeva: una donna sola, senza aiuto e senza rifugio, una donna nei territori selvaggi; e la pietà si smarrì tra ammirazione e paura. Aveva paura di lei. In Luz c’era una forza che non nasceva dall’amore o dalla fiducia o dalla comunità, non scaturiva da nessuna delle fonti che dovrebbero dare forza, da nessuna fonte che lui riconoscesse. Temeva quella forza, e l’agognava. In quei tre giorni da quando erano insieme aveva pensato a lei costantemente: come se tutta la loro lotta avesse un senso soltanto se lei avesse potuto comprenderla, come se la sua scelta fosse più importante dei loro piani e dei loro ideali… Luz era degna di pietà e di ammirazione, preziosa come lo è ogni anima umana, ma non doveva dominargli la mente. Doveva essere una di loro, agire con lui, sostenerlo, e non riempire e confondere così i suoi pensieri. In seguito ci sarebbe stato il tempo di pensare a lei e di comprenderla, quando il confronto fosse finito, quando avessero vinto e ottenuto la pace. In seguito ci sarebbe stato tutto il tempo del mondo.

— Non possiamo andare a nord, ora — disse con pazienza, un po’ freddamente. — Se un gruppo se ne andasse ora, indebolirebbe l’unità di quelli che devono rimanere. E la città lo inseguirebbe. Dobbiamo affermare la nostra libertà di andare: qui, ora. Poi andremo.

— Perché avete consegnato le carte, perché gli avete mostrato la strada? — ribatté Luz, spazientita. — È stato un gesto stupido. Avreste potuto andarvene, semplicemente.

— Siamo un’unica comunità — disse Lev, — la città e il paese. — Non aggiunse altro.

Andre rovinò un poco l’effetto di quelle parole aggiungendo: — Comunque non potremmo sgattaiolare via furtivamente. Un’enorme massa di gente che emigra lascia tracce molto facili da seguire.

— E anche se vi seguissero fino a nord, fino alle vostre montagne? Voi sarete già arrivati e potreste dire: «Ci dispiace tanto, questa è la nostra, trovatevi un’altra valle, lo spazio non manca!»

— E loro userebbero la forza. Prima è necessario stabilire il principio dell’uguaglianza e della libera scelta. Qui.

— Ma anche qui usano la forza! Vera è prigioniera, e gli altri sono in carcere, e il vecchio ha perso un occhio, e quelli verranno qui a picchiarvi o spararvi… Tutto per stabilire un «principio» mentre invece avreste potuto andarvene, liberi!

— La libertà si conquista col sacrificio — disse Southwind. Lev la guardò, poi guardò Luz: non era sicuro che Luz sapesse della morte di Timmo, durante il viaggio verso il nord. Probabilmente lo sapeva, dato che le ultime notti era rimasta sola con Southwind. Comunque, il tono quieto della voce di Southwind la calmò. — Lo so — disse Luz. — Dovete correre certi rischi. Ma il sacrificio… Io odio l’idea del sacrificio!

Lev sorrise, involontariamente. — E tu cos’hai fatto?

— Non mi sono sacrificata per un’idea! Sono fuggita, non capisci? È quello che dovreste fare anche voi! — Luz parlava in tono di sfida e di autodifesa, non con convinzione; ma le parole di Southwind sorpresero Lev. — Forse hai ragione — disse Southwind. — Finché restiamo e lottiamo, anche se con le nostre armi, combattiamo la loro guerra.

Luz era un’estranea, non sapeva in che modo pensava e sentiva il Popolo della Pace: ma udire Southwind che diceva quelle parole irresponsabili era sconvolgente, un affronto alla loro unità perfetta.

— Fuggire e nasconderci nella foresta: è una scelta? — disse Lev. — Per i conigli sì. Non per gli esseri umani. Avere due mani e stare eretti non ci rende umani. Ma resistere, avere idee e ideali, questo sì! E non abbandonare quegli ideali. Insieme. Non possiamo vivere soli. Se no moriremo soli, come animali.

Southwind annuì tristemente, ma Luz lo guardò accigliandosi. — La morte è la morte: cosa importa che venga in un letto o nella foresta? Noi siamo animali. È per questo che moriamo.

— Ma vivere e morire per… per lo spirito… è diverso, diverso dal fuggire e nascondersi, tutti separati, egoisti, arraffando il cibo, tremando, odiando, soli… — Lev balbettava e si sentiva il volto accaldato. Incontrò lo sguardo di Luz e balbettò ancora e poi tacque. Nello sguardo di lei c’era una lode, una lode quale lui non aveva mai meritato e non aveva mai sognato di meritare, lode e gioia: e Lev si sentì confermato, in quel momento di collera e di discussione, confermato totalmente, nelle sue parole, nella sua vita, nel suo essere.