Peccato. Aveva tanto sperato. Non aveva mai letto un libro, prima.
Aveva imparato a leggere e scrivere, naturalmente, perché era la figlia di un Padrone. Oltre a imparare a memoria le lezioni aveva ricopiato i precetti morali, ed era in grado di scrivere una lettera per fare o declinare un invito, con un’elegante cornice a volute e i saluti e la firma tracciati a lettere più grandi e rigide. Ma a scuola usavano le lavagne e i quaderni scritti a mano dalle maestre. Lei non aveva mai toccato un libro. I libri erano troppo preziosi per usarli a scuola: in tutto il mondo erano soltanto poche decine. Ma quel pomeriggio, entrando nella sala, aveva visto su un tavolino una scatoletta marrone: aveva sollevato il coperchio per vedere cosa c’era dentro, era piena di parole. Parole minuscole, ben tracciate, con tutte le lettere simili le une alle altre, e chissà quanta pazienza era stata necessaria per farle tutte della stessa grandezza! Un libro…un libro vero, venuto dalla Terra. Suo padre doveva averlo lasciato lì. Luz l’aveva preso, l’aveva portato accanto alla finestra, aveva aperto di nuovo il coperchio, con cura, e aveva letto lentamente tutte le parole sul primo foglio.
Sembrava che non avesse molto senso. «Pronto soccorso» era chiaro, ma la seconda riga era un rompicapo. Cominciava con un nome proprio, Manuela, e poi parlava d’incidenti. Quindi venivano tutte quelle lettere seguite da un puntino. E cos’erano una Ginevra, una edizione, una Svizzera?
Non meno sconcertanti erano le lettere rosse piazzate obliquamente sulla pagina, come se fossero state scritte sopra le altre: DONATO DALLA CROCE ROSSA MONDIALE ALLA COLONIA PENALE DI VICTORIA.
Luz girò il foglio, ammirandolo. Era liscio, sotto le dita, più della stoffa più fine, resistente ma morbido come una foglia-tetto fresca, e di un bianco purissimo.
Lesse parola per parola fino in fondo alla prima pagina, poi prese a girare parecchi fogli alla volta perché oltre metà delle parole non avevano senso. C’erano illustrazioni macabre che riaccesero il suo interesse, sconcertandola. Persone che ne sostenevano altre e respiravano loro in bocca; immagini delle ossa all’interno di una gamba, delle vene all’interno di un braccio; illustrazioni colorate, su carta meravigliosamente lucida come il vetro, di persone con piccole macchie rosse sulle spalle, grandi chiazze rosse sulle guance, orribili pustole su tutto il corpo e parole misteriose sotto le immagini: Eczema allergico. Morbillo. Varicella. Rosolio. No: era rosolia, non rosolio. Studiò tutte le immagini, e qualche volta diede una scorsa alle parole scritte sulla pagina di fronte. Capì che era un libro di medicina, e che era stato il medico — non suo padre — a dimenticarlo sul tavolino la sera prima. Il medico era un brav’uomo, ma suscettibile: si sarebbe irritato se avesse saputo che lei aveva guardato il suo libro? Dentro c’erano i suoi segreti. Lui non rispondeva mai alle domande: i segreti preferiva tenerli per sé.
Luz sospirò di nuovo e guardò le nubi lacere e piovose. Aveva già visto tutte le illustrazioni, e le parole non erano interessanti. Si alzò; stava posando il libro sul tavolino, esattamente dove l’aveva trovato, quando entrò suo padre. Aveva il passo energico, la schiena diritta, gli occhi chiari e severi. Sorrise nel vedere Luz. Un po’ sorpresa, sentendosi in colpa, lei gli fece una profonda riverenza, nascondendo con la gonna il tavolino e il libro.
— Senhor! Mille saluti!
— Ecco la mia bella bambina. Michael! Acqua calda e un asciugamano! Mi sento lurido. — Lui si sedette in una delle poltrone di legno intagliato e allungò le gambe, ma tenne la schiena diritta, come sempre.
— Dove è stato, per sentirsi lurido?
— Dai parassiti.
— A Shantih?
— Tre specie di esseri sono venute dalla Terra a Victoria: uomini, pidocchi, e quelli di Shantih. Se avessi la possibilità di scegliere la specie da eliminare, sceglierei la terza. — Lui sorrise di nuovo, divertito della battuta, poi guardò la figlia e disse: — Uno di loro ha avuto la presunzione di rispondermi. Credo che tu lo conosca.
— Lo conosco?
— A scuola. I parassiti non dovrebbero essere autorizzati ad andare a scuola. Ho dimenticato il nome. I loro nomi sono tutti assurdi. Un ragazzetto con i capelli neri.
— Lev?
— Proprio lui. Un piantagrane.
— Cosa le ha detto?
— Mi ha detto di no.
Il servitore entrò in fretta, portando una bacinella di coccio e una brocca d’acqua fumante; dietro di lui veniva una cameriera con gli asciugamani. Falco si lavò mani e faccia, soffiando e sbuffando e parlando. — È appena ritornato insieme ad altri da una spedizione al nord, nei tenitori disabitati. Dice che hanno trovato una località adatta a una città. Vogliono trasferirsi in blocco.
— Lasciare Shantih? Tutti?
Falco sbuffò una conferma, e allungò i piedi perché Michael gli togliesse gli stivali. — Come se potessero sopravvivere un inverno, senza la città che si prenda cura di loro! La Terra li ha mandati qui cinquant’anni fa giudicandoli imbecilli irrimediabili, e infatti lo sono. È ora che imparino di nuovo la lezione.
— Ma non possono avventurarsi così, nei territori disabitati — disse Luz, che aveva ascoltato i propri pensieri e non soltanto le parole del padre. — Chi coltiverebbe i nostri campi?
Suo padre ripeté la domanda, così trasformando un’espressione emotiva femminile in una mascolina valutazione dei fatti. — Naturalmente non si può permettere che comincino a disperdersi così. Sono la manodopera necessaria.
— Ma perché sono quelli di Shantih a svolgere quasi tutti i lavori agricoli?
— Perché non sanno fare altro. Porta via quell’acqua sporca, Michael.
— Quasi nessuno dei nostri sa coltivare la terra — disse Luz. Stava riflettendo. Aveva le sopracciglia scure, fortemente arcuate come quelle del padre, e quando rifletteva si congiungevano in una linea retta sopra gli occhi. A suo padre, ciò non piaceva: non era un’espressione adatta al grazioso volto di una ventenne. Le dava un’aria dura, poco femminile. Gliel’aveva ripetuto spesso, ma lei non aveva mai perso quella brutta abitudine.
— Mia cara, noi siamo abitanti della città, non contadini.
— Ma chi coltivava i campi prima che arrivassero quelli di Shantih? La colonia esisteva già da sessant’anni, quando sono giunti loro.
— Gli operai svolgevano il lavoro manuale, naturalmente. Ma neanche i nostri operai sono mai stati contadini. Noi siamo gente di città.
— E soffrivamo la fame, vero? C’erano le carestie. — Luz parlò in tono sognante, come se ricordasse una vecchia lezione di storia, ma le sue sopracciglia erano ancora abbassate in quella linea nera. — Durante i primi dieci anni della colonia, e in altre occasioni, molta gente è morta di fame. Non sapevano coltivare il riso palustre o le radici zuccherine, prima dell’arrivo di quelli di Shantih.
Anche le nere sopracciglia di suo padre, adesso, formavano una linea diritta. Lui congedò Michael e la cameriera e cambiò argomento, con un gesto secco. — È un errore — disse in tono asciutto, — mandare a scuola i contadini e le donne. I contadini diventano insolenti, le donne noiose.
Due o tre anni prima, quel commento l’avrebbe fatta disperare. Avrebbe chinato la testa e si sarebbe rifugiata in camera sua a piangere, e si sarebbe sentita infelice fino a quando suo padre non le avesse detto una parola gentile. Ma adesso lui non poteva farla piangere. Luz non sapeva perché, e le sembrava molto strano. Lo temeva e l’ammirava come sempre; ma sapeva sempre quello che stava per dire. Non era mai niente di nuovo. Mai.