Si voltò a guardare ancora, attraverso il vetro spesso e irregolare, la baia di Songe, la lontana curva della riva velata dalla pioggia incessante. Era una figura vivida, eretta nella luce tetra, con la lunga gonna rossa tessuta a mano e la camicetta a volanti. Sembrava indifferente e sola, al centro di quella stanza alta e lunga: e si sentiva sola e indifferente. E sentiva anche lo sguardo del padre, fisso su di lei. Sapeva cosa stava per dirle.
— Sarebbe ora che ti sposassi, Luz Marina.
Lei attese l’altra frase, inevitabile.
— Da quando è morta tua madre… — E il sospiro.
Basta, basta, basta!
Si girò verso di lui. — Ho letto quel libro — disse.
— Quale libro?
— Deve averlo dimenticato il dottor Martin. Cosa significa «colonia penale»?
— Non avevi il diritto di toccarlo!
Suo padre era sorpreso. Questo, se non altro, era interessante.
— Credevo che fosse una scatola di frutta secca — disse lei, e rise. — Ma cosa significa «colonia penale»? Una colonia di criminali, una prigione?
— Questo non ti riguarda.
— I nostri antenati sono stati mandati qui come prigionieri, giusto? Lo dicevano quelli di Shantih a scuola. — Falco si stava sbiancando in volto, ma il pericolo esaltava Luz: la sua mente turbinava, e lei diceva ciò che le passava nella mente. — Dicono che quelli della prima generazione erano tutti delinquenti. Il governo della Terra si serviva di Victoria come di una prigione. Quelli di Shantih dicono che loro sono stati mandati qui perché credevano nella pace o in qualcosa di simile, ma noi siamo stati relegati su questo mondo perché eravamo tutti ladri e assassini. E quasi tutti quelli della prima generazione erano uomini, e le loro donne non potevano venire se non erano le mogli, e per questo all’inizio erano così poche. Mi è sempre sembrata una cosa stupida, non mandare abbastanza donne per una colonia. E spiega perché le navi erano fatte solo per il viaggio d’andata e non potevano tornare indietro, e perché quelli della Terra non vengono mai qui. Siamo chiusi fuori. È vero, no? La chiamiamo Colonia Victoria, ma è una prigione.
Falco si era alzato. Si mosse; Luz restò immobile.
— No — disse in tono leggero, quasi indifferente. — No padre.
La sua voce fermò l’uomo: anche lui restò immobile, e la guardò. Per un momento, la vide. Lei scorse nei suoi occhi che la vedeva e che aveva paura. Per un momento, solo per un momento.
Suo padre si voltò. Andò al tavolino e prese il libro dimenticato dal dottor Martin. — Che importanza ha, Luz Marina? — chiese, alla fine.
— Vorrei saperlo.
— È accaduto cent’anni fa. E la Terra è perduta. E noi siamo quello che siamo.
Luz annuì. Quando le parlava così, in tono asciutto e calmo, lei vedeva la forza che ammirava e amava.
— Ciò che mi esaspera — disse lui, ma senza collera, — è che tu abbia dato ascolto alle chiacchiere di quei vermi. Hanno spiegato tutto a modo loro. Cosa ne sanno? Hai lasciato che ti dicessero che Luis Firmin Falco, il mio bisnonno, il fondatore della nostra casata, era un ladro, un carcerato. Cosa ne sanno! Io so cos’erano i nostri antenati, e posso dirtelo. Erano uomini. Uomini troppo forti per la Terra. Il governo della Terra li ha mandati qui perché aveva paura di loro. I migliori, i più coraggiosi, i più forti: le migliaia e migliaia di deboli, sulla Terra, avevano paura di loro, e li hanno catturati e fatti partire con quelle navi senza ritorno, per poter fare sulla Terra quello che volevano, capisci? Bene: quando questo è avvenuto, quando i veri uomini erano partiti, i terrestri rimasti erano così deboli ed effemminati che hanno cominciato ad aver paura perfino di marmaglia come gli abitanti di Shantih. Perciò li hanno spediti qui, perché noi li tenessimo a bada. E noi l’abbiamo fatto. Capisci? È andata così.
Luz annuì. Accettava l’evidente intenzione di placarla, sebbene non sapesse come mai — per la prima volta — suo padre le parlava spiegandole qualcosa, da pari a pari. Qualunque fosse la ragione, la spiegazione suonava bene: e lei era abituata a sentire frasi che suonavano bene, e a cercare di capire in seguito cosa significavano davvero. Prima di conoscere Lev, a scuola, non aveva mai pensato che qualcuno preferisse dire una semplice verità anziché una menzogna che suonasse bene. La gente diceva quello che le tornava utile, quando parlava sul serio: altrimenti parlava così, tanto per parlare. Con le ragazze, poi, nessuno parlava quasi mai sul serio. Alle ragazze bisognava nascondere le verità spiacevoli, affinché le loro anime pure non s’involgarissero e non si contaminassero. Del resto, lei aveva chiesto della colonia penale soprattutto per distogliere il padre dai discorsi sul suo matrimonio: e il trucco era servito allo scopo.
"Ma il guaio", pensò quando fu sola nella sua stanza, "è che questi trucchi sono tranelli anche per me".
Aveva sbagliato a discutere con suo padre e ad avere la meglio nella discussione. Lui non gliel’avrebbe perdonato.
Tutte le ragazze della sua età e del suo rango, in città, ormai erano sposate da due o tre anni. Lei aveva evitato il matrimonio soltanto perché Falco, forse senza rendersene conto, non voleva lasciarla andare. Era abituato ad averla vicina. Erano molto simili: e ognuno di loro apprezzava la compagnia dell’altro forse più di ogni altra compagnia. Ma quella sera lui l’aveva guardata come se vedesse una persona diversa, una persona alla quale non era abituato. Se cominciava a notarla come una persona diversa da lui, se lei cominciava a vincere troppe battaglie, se non era più la sua ragazzina docile, suo padre si sarebbe chiesto cos’altro era… e a cosa serviva.
Già: a cosa serviva, lei? Alla continuità della casata di Falco, ovviamente. E poi? Herman Marquez o Herman Macmilan. E non c’era più niente da fare. Sarebbe diventata una moglie. Sarebbe diventata una nuora. Avrebbe portato i capelli raccolti in una crocchia, avrebbe rimproverato i servitori, avrebbe ascoltato gli uomini far baldoria nella sala, dopo cena, e avrebbe avuto figli. Uno all’anno. Piccoli Marquez Falco. Piccoli Macmilan Falco. Eva, la sua compagna di giochi, si era sposata a sedici anni, e adesso aveva tre figli e ne aspettava un quarto. Il marito di Eva, il figlio del consigliere Aldo Di Giulio Hertz, la picchiava, e lei ne era orgogliosa. Mostrava i lividi e mormorava:
— Aldito ha un tale caratteraccio! È scatenato come un bambino bizzoso.
Luz fece una smorfia e sputò. Sputò sulle piastrelle del pavimento della stanza. Fissò il piccolo grumo grigiastro di saliva e si augurò di potervi annegare Herman Marquez e poi Herman Macmilan. Si sentiva sudicia. La stanza era soffocante, sudicia: la cella di una prigione. Fuggì da quel pensiero, e dalla stanza. Si precipitò fuori in corridoio, raccogliendo la gonna, salì la scaletta e si rifugiò sotto il tetto, dove non andava mai nessuno. Si sedette sul polveroso pavimento — il tetto, martellato dalla pioggia, era troppo basso perché lei potesse stare in piedi — e lasciò la mente libera di vagare.
E la sua mente sfrecciò via, lontano da quella casa e da quell’ora, e tornò a un altro tempo, più spazioso.
Sul campo di gioco della scuola, un pomeriggio di primavera, due ragazzi giocavano a palla. Erano di Shantih, Lev e il suo amico Timmo. Lei stava sotto il portico della scuola e li guardava, meravigliandosi di ciò che vedeva: l’allungo e la tensione delle schiene e delle braccia, l’abile slancio, i balzi del pallone nella luce. Sembrava che suonassero una musica silenziosa, la musica del movimento. La luce veniva da sotto i nembi temporaleschi, da ovest, sopra la baia di Songe, orizzontale e dorata; la terra era più luminosa del cielo. L’argine di terra dietro il campo era dorato, l’erba che lo copriva era brunita. La terra bruciava. Lev attendeva di afferrare un lancio lungo, con la testa all’indietro, le mani tese: e lei stava a guardarlo, sorpresa da quella bellezza.