Un gruppo di ragazzi della città girò intorno alla scuola per giocare al calcio. Gridarono a Lev di consegnare la palla, proprio mentre lui scattava, col braccio levato, per afferrare il lancio alto di Timmo. La prese, e rise, e gettò la palla agli altri.
Quando i due passarono davanti al portico, lei scese di corsa i gradini. — Lev!
L’orizzonte sfolgorava dietro di lui, e lui spiccava nero tra lei e il sole.
— Perché gli hai dato il pallone?
Non poteva scorgere il volto, controluce. Timmo, un ragazzo alto e bello, era rimasto un po’ indietro e non la guardava in faccia.
— Perché ti lasci tiranneggiare così?
Finalmente Lev rispose. — Non è vero — disse. Quando Luz si avvicinò, vide che la stava guardando fissamente.
— Ti hanno detto «dà qua!» e tu gliel’hai dato…
— Loro vogliono fare una partita: noi stavamo solo passando il tempo. Il nostro turno l’avevamo fatto.
— Ma non te l’hanno chiesto: te l’hanno ordinato. Non hai orgoglio?
Gli occhi di Lev erano scuri, il volto era scuro e rozzo, incompiuto. Sorrise: un sorriso dolce, sorpreso.
— Orgoglio? Sicuro. Se non l’avessi, terrei il pallone quando è il loro turno.
— Perché hai sempre una risposta pronta?
— Perché la vita è piena d’interrogativi.
Lev rideva, ma continuava a guardarla come se anche lei fosse stata un interrogativo, un interrogativo improvviso, senza risposta. E aveva ragione: lei non sapeva perché lo sfidasse così.
Timmo stava un po’ in disparte, a disagio. Alcuni dei ragazzi sul campo di gioco li stavano già guardando: due di Shantih che parlavano con una senhorita.
Senza commenti, i tre si allontanarono dalla scuola, lungo la via, in modo che dal campo non li vedessero.
— Se uno di loro parlasse a un altro come hanno parlato a voi — disse Luz, — ci sarebbe stata una zuffa. Perché non avete lottato?
— Per un pallone?
— Per qualunque cosa!
— Lo facciamo.
— Quando? Come? Ve ne siete andati e basta.
— Veniamo tutti i giorni in città, a scuola — disse Lev. Non la guardava, ora, mentre camminavano fianco a fianco, e il suo volto era il solito: un comune volto di ragazzo, ostinato e imbronciato. In un primo momento Luz non capì cosa intendeva, e quando comprese non seppe cosa replicare.
— I pugni e i coltelli sono il meno — disse Lev; e forse sentì un tono pomposo nella propria voce, una specie di vanteria, perché si rivolse a Luz con una risata e una scrollata di spalle. — E neanche le parole sono un gran che!
Uscirono dall’ombra di una casa, nell’aurea luce orizzontale. Il sole era una chiazza liquida e indistinta fra il mare scuro e le nubi buie, e i tetti della città ardevano di un fuoco ultraterreno. I tre giovani si fermarono, guardando l’immane splendore e l’immane oscurità a occidente. Il vento del mare, odoroso di sale e di spazi e di fumo di legna, spirava freddo sui loro volti.
— Non vedi? — disse Lev. — Puoi vederla: puoi vedere ciò che dovrebbe essere, ciò che è.
Lei vide, con gli occhi di lui: vide lo splendore, la città che avrebbe dovuto essere, e che era.
Quel momento si spezzò. La luminosa foschia ardeva ancora tra il mare e la tempesta, la città si stagliava ancora dorata e minacciata sull’eterna riva; ma c’era gente che scendeva per la via dietro di loro, parlando e gridando. Erano ragazze di Shantih, che si erano trattenute a scuola per aiutare le maestre a pulire le aule. Si affiancarono a Timmo e Lev e salutarono Luz gentilmente ma — come aveva fatto Timmo — con aria guardinga. Per andare a casa lei doveva svoltare a sinistra, verso il centro della città; loro a destra, su per le alture, per la strada del paese.
Mentre scendeva per la via scoscesa, Luz si voltò indietro a guardarli. Le ragazze della città deridevano quelle di Shantih perché portavano i calzoni: ma si confezionavano gonne con la stoffa di Shantih, quando riuscivano a procurarsela, perché era più fine e tinta meglio di quella tessuta in città. I calzoni e le giacche dei ragazzi, con le maniche lunghe e il colletto alto, erano bianchi, del bianco-panna della fibra naturale di erbaseta. I folti e morbidi capelli di Lev spiccavano nerissimi sopra quel candore. Camminava un po’ indietro rispetto agli altri, al fianco di Southwind, una bella ragazza che parlava sempre a voce bassa. Dal modo in cui Lev teneva piegata la testa, Luz capì che ascoltava quella voce e sorrideva.
— Cazzo! — disse, e si avviò a grandi passi con la lunga gonna che le sventolava contro le caviglie. Era troppo beneducata per conoscere certe imprecazioni. Conosceva «diavolo!» perché lo diceva suo padre, anche di fronte alle donne, quando era irritato. Lei non diceva mai «diavolo!»: era una proprietà di suo padre. Ma tanti anni prima Eva le aveva detto che «cazzo» era una parolaccia terribile, e perciò quando era sola la usava.
E materializzandosi dal nulla come un cose, e al pari di questo gobba, con gli occhietti lucidi e vagamente piumosa, apparve la sua duenna, la cugina Lores: lei credeva che si fosse stancata e se ne fosse andata a casa mezz’ora prima. — Luz Marina! Luz Marina! Dov’eri? Ti ho aspettata tanto… Sono corsa a casa Falco e poi sono tornata a scuola… Dov’eri? Perché te ne vai in giro tutta sola? Rallenta, Luz Marina: mi sento morire, mi sento morire.
Ma Luz non rallentò per quella povera donna. Continuò a grandi passi, lottando con le lacrime che l’avevano assalita a tradimento: lacrime di rabbia perché non poteva mai andare in giro da sola, non poteva far mai niente da sola, mai. Perché comandavano gli uomini. La spuntavano sempre. E le donne più anziane erano tutte dalla loro parte. Una ragazza non poteva girare sola per le vie della città perché un operaio ubriaco avrebbe potuto insultarla, e cosa importava se dopo sarebbe finito in prigione o gli avrebbero tagliato le orecchie? Non sarebbe servito a nulla. La reputazione della ragazza era ciò che gli uomini pensavano di lei. Gli uomini pensavano tutto, facevano tutto, dirigevano tutto, facevano le leggi, infrangevano le leggi, punivano chi le infrangeva; e non restava spazio per le donne, la città non era per le donne. C’era spazio solo nelle loro stanze, quand’erano sole.
Perfino un abitante di Shantih era più libero di lei. Perfino Lev, che non voleva azzuffarsi per un pallone ma che sfidava la notte quando scendeva dall’orlo del mondo, e rideva delle leggi. Perfino Southwind, che era così mite e taciturna… Southwind poteva tornare a casa con chi voleva, mano nella mano, attraverso i campi, nel vento della sera, correndo per precedere la pioggia.
La pioggia tamburellava sulle tegole della soffitta, dove lei si era rifugiata quel giorno, tre anni prima, quando finalmente era arrivata a casa, con la cugina Lores che ansimava e sbuffava e protestava dietro di lei, per tutta la strada.
Tre anni da quella sera nella luce d’oro. E in cambio, niente. Adesso meno di allora. Tre anni prima, lei andava ancora a scuola: aveva creduto che quando la scuola fosse finita lei sarebbe stata magicamente libera.
Una prigione. Tutta Victoria era una prigione, un carcere. E non c’era una via d’uscita. Non c’era un posto dove andare.
Soltanto Lev se n’era andato, e aveva trovato un posto nuovo, lontano, a nord, nelle terre disabitate, un posto dove andare… Ed era tornato, e aveva detto «No» al Padrone Falco.
Ma Lev era libero, era sempre stato libero. E per questo non c’era stato un momento nella vita di lei, prima o dopo, come quello in cui era stata al suo fianco, sulle alture della città nella luce dorata prima della tempesta, e aveva visto con lui cos’era la libertà. Per un momento. Una raffica di vento marino, un incontro di sguardi.