«Dubito che perfino dy Naoza fosse tanto stupido da minacciare un Justiciar della provincia», replicò dy Ferrej. «Anche se è possibile che abbia intimidito i testimoni. Quanto a Vrese… È più probabile che sia stato gestito con metodi più pacifici.» S’infilò in bocca il pezzetto di pane che aveva in mano e sfregò l’indice e il pollice, a indicare che il mezzo utilizzato era stato il denaro.
«Se il giudice avesse fatto il suo mestiere con onore e con coraggio, quel mercante non sarebbe mai stato spinto a ricorrere alla magia di morte», dichiarò Iselle, scandendo le parole. «Due uomini sono ormai morti e dannati, mentre questa sorte sarebbe dovuta toccare a uno soltanto… Senza contare che, se fosse stato giustiziato, dy Naoza avrebbe avuto modo di purificare la propria anima prima di affrontare gli Dei. Se queste cose sono risapute, come mai quell’uomo è ancora un giudice? Nonna, non puoi fare qualcosa al riguardo?»
«La nomina dei Justiciar provinciali non dipende da me, mia cara, e neppure la loro rimozione…» rispose la Provincara con espressione contrariata. «Il loro dipartimento sarebbe gestito in maniera più ordinata, te lo garantisco.» Bevve un sorso di vino; poi, nel notare l’espressione accigliata della nipote, aggiunse: «Qui, nella Baocia, ho grandi privilegi, bambina, ma non ho grandi poteri».
Iselle lanciò un’occhiata a Teidez, poi una a Cazaril, ripetendo la stessa domanda posta poco prima dal fratello, ma con voce molto seria. «Qual è la differenza?»
«Una cosa è il diritto a governare… e a elargire protezione; un’altra è il diritto a ricevere protezione», spiegò la Provincara. «Purtroppo, fra un Provincar e una Provincara esiste una differenza che va ben oltre una semplice lettera in più o in meno nel titolo.»
«Come la differenza tra un Royse e una Royesse?» sogghignò Teidez.
«Davvero?» ribatté Iselle, girandosi a fissarlo con le sopracciglia inarcate. «In tal caso, ragazzo privilegiato, posso sapere come ti proponi di rimuovere quel giudice corrotto?»
«Ora basta, voi due», intervenne la Provincara, nel tipico tono di una nonna abituata a essere obbedita. Cazaril sorrise. All’interno di quelle mura, lei era senza dubbio la sovrana assoluta, in virtù di un codice più antico di quello di Chalion, e quel piccolo Stato le era più che sufficiente.
La conversazione si spostò quindi su argomenti più leggeri, mentre i servi provvedevano a portare formaggio, dolci e un vino di Brajar. Cazaril si era rimpinzato per bene, anche se sperava che nessuno se ne fosse accorto, e sapeva di dover smettere se non voleva correre il rischio di sentirsi male. Ma la vista di quel vino da dessert di colore dorato gli fece quasi salire le lacrime agli occhi e lui non seppe trattenersi dal gustarlo senza allungarlo con l’acqua, anche se si limitò a un bicchiere soltanto.
Il pasto fu concluso da altre preghiere di ringraziamento, poi il Royse Teidez venne trascinato via dal suo tutore per riprendere gli studi; subito dopo, anche Iselle e Betriz si allontanarono a passo spedito, seguite con più calma da dy Ferrej, per andare a dedicarsi al cucito.
«Riusciranno davvero a starsene sedute a cucire?» chiese Cazaril alla Provincara, osservando quel vortice di sottane che svanivano in lontananza.
«Spettegolano e ridacchiano finché non riesco più a sopportarle, ma sono molto brave a cucire», replicò la Provincara, il cui tono di disapprovazione era smentito dalla luce dello sguardo.
«Vostra nipote è una deliziosa giovane dama.»
«Cazaril, quando un uomo raggiunge una certa età, tutte le giovani dame cominciano ad apparirgli deliziose. È il primo sintomo di senilità.»
«È vero, mia signora», convenne Cazaril, con un accenno di sorriso.
«Iselle ha già logorato due governanti, e pare ben avviata a distruggerne una terza, almeno a giudicare dalle sue lamentele, e tuttavia… dev’essere forte», affermò la Provincara, con una nota cauta nella voce tagliente. «Un giorno, inevitabilmente, verrà mandata lontano da me, e non sarò più in grado di aiutarla… di proteggerla…»
Nella politica di Chalion, una giovane e attraente Royesse era una pedina e non un giocatore. Senza dubbio, il prezzo che avrebbero richiesto per darla in sposa sarebbe stato elevato, eppure un matrimonio politicamente e finanziariamente fortunato poteva non essere tale da un punto di vista più intimo e personale. Da quel punto di vista, il destino era stato benigno con la Provincara, ma, nel corso della sua vita, lei di certo aveva visto numerose dame di nobile nascita andare incontro a una sorte molto meno favorevole della sua. Iselle sarebbe stata inviata nella lontana Darthaca? Oppure sarebbe andata in sposa a qualche cugino anche troppo prossimo della royacy di Brajar? Oppure, che gli Dei non volessero, sarebbe stata contrattata la sua unione con qualche principe roknari in cambio di una pace temporanea, e lei avrebbe finito per trovarsi esiliata nell’Arcipelago?
«Quanti anni avete adesso, Castillar?» chiese la Provincara, scoccandogli un’occhiata in tralice alla luce dei grandi candelabri che le erano sempre piaciuti molto. «Mi pare di ricordare che ne avevate tredici, quando vostro padre vi ha inviato al servizio del mio caro Provincar.»
«Sì. Vostra Grazia. Adesso ne ho trentacinque.»
«Ah. Sapete, dovreste radervi quel cespuglio che vi cresce sulla faccia, perché vi fa sembrare quindici anni più vecchio.»
Cazaril pensò di ribattere che una lunga permanenza sulle galee dei roknari poteva invecchiare notevolmente un uomo, ma quella era una cosa su cui non si sentiva di scherzare. «Spero di non aver irritato il Royse con le mie divagazioni, Vostra Grazia», disse invece.
«Credo invece che voi abbiate indotto il giovane Teidez a soffermarsi a riflettere, il che è un evento raro. Vorrei che il suo tutore riuscisse a fare altrettanto con maggiore frequenza.» La Provincara tamburellò per un momento sulla tovaglia con le dita sottili, poi finì il vino che aveva nel bicchiere e aggiunse: «Non so in quale pulciosa locanda voi abbiate preso alloggio, giù in città, Castillar, ma adesso manderò un paggio a prendere le vostre cose. Stanotte vi fermerete qui».
«Ringrazio Vostra Grazia e accetto con gratitudine», rispose Cazaril, rivolgendo una silenziosa preghiera agli Dei per quell’ospitalità. Poi, con fare imbarazzato, proseguì: «Però… ecco… non sarà necessario disturbare il vostro paggio».
«Come forse ricorderete, i paggi esistono proprio per questo», ribatté la dama, inarcando un sopracciglio.
«Sì, però… le mie cose sono tutte qui», confessò Cazaril, indicando se stesso e, nel notare l’espressione d’un tratto addolorata della Provincara, si affrettò a continuare: «Possedevo anche meno, quando sono sbarcato dalla galea ibrana, a Zagosur». Era coperto di croste e aveva addosso soltanto un paio di luridi calzoni, che gli Accoliti poi avevano bruciato.
«In tal caso, il mio paggio vi accompagnerà nella vostra stanza», replicò la Provincara, continuando a fissarlo intensamente. «Buonanotte, mio signore dy Cazaril», si congedò quindi, accennando ad alzarsi, assistita dalla dama di compagnia. «Parleremo ancora domani.»
La camera era una di quelle della vecchia fortezza, riservate agli ospiti di riguardo, più per il fatto che in esse avevano dormito numerosi Roya d’importanza storica che non per la loro effettiva comodità. All’epoca in cui era un paggio, Cazaril aveva servito in centinaia di occasioni coloro che vi avevano alloggiato. Il letto aveva tre materassi — di paglia, di penne e di piume ed era coperto da morbide lenzuola di lino e da un copriletto ricamato dalle dame della famiglia.
Il paggio non si era ancora congedato allorché sopraggiunsero due cameriere, portando acqua da bere e per lavarsi, asciugamani, sapone e una camicia da notte ricamata, completa di papalina e di pantofole. Cazaril, che aveva pensato di dormire con la camicia presa al morto, venne quasi sopraffatto da quell’abbondanza e si sedette sul bordo del letto, con la camicia da notte fra le mani, scoppiando in un pianto violento. Scosso dai singhiozzi, con un cenno fece capire ai servitori, sconvolti, di lasciarlo solo.