«Che gli ha preso?» disse una delle cameriere, mentre i passi dei tre si allontanavano lungo il corridoio, e le lacrime continuavano a scendere.
«Probabilmente è pazzo», replicò il paggio, in tono disgustato.
La voce della cameriera, più fievole per la distanza, arrivò di nuovo all’orecchio di Cazaril. «In tal caso, qui si troverà nell’ambiente adatto a lui, non credi?»
3
Nel grigiore che precedeva l’alba, Cazaril fu svegliato dai rumori tipici del palazzo che si animava: i richiami dei servi nel cortile, il lontano clangore metallico delle pentole… Nell’aprire gli occhi, si sentì disorientato, sull’orlo del panico, ma il rassicurante abbraccio del materasso di piume lo fece scivolare di nuovo nel dormiveglia. No, non giaceva su una dura panca che ondeggiava. Non si muoveva affatto. I cinque Dei gli erano testimoni che quel semplice fatto per lui equivaleva al paradiso. Il calore delle piume, poi, era una vera panacea per la sua povera schiena.
I festeggiamenti previsti per il Giorno della Figlia si sarebbero protratti dall’alba a notte inoltrata, ma forse lui poteva restarsene a letto finché tutti non si fossero uniti alla processione, e andarsene poi in giro senza dare nell’occhio, oziando al sole, insieme coi gatti del castello. Se poi avesse avuto fame, avrebbe potuto attingere ai ricordi di paggio: all’epoca, sapeva bene come convincere il cuoco a dargli qualche boccone in più…
Un colpo deciso battuto contro la porta interruppe quei pensieri piacevoli. Cazaril sussultò, rilassandosi tuttavia subito dopo nel sentire la voce di Lady Betriz.
«Mio signore dy Cazaril? Castillar, siete sveglio?» chiese la ragazza.
«Un momento, mia signora», rispose lui. Scivolato fino al bordo del letto, si strappò dall’amorevole abbraccio del materasso, posando i piedi nudi su una stuoia di canne intrecciate. Assestatasi la lunga camicia da notte di lino, raggiunse la porta e la socchiuse.
Betriz, nel corridoio, stringeva in una mano una candela, protetta da una lanterna di vetro soffiato, e nell’altra un assortimento di stoffa, di cinghie di cuoio e di qualcosa che emetteva un tintinnio metallico. Era vestita per la giornata di festa, con un abito azzurro e una sopravveste bianca lunga dalle spalle alle caviglie; aveva i capelli scuri raccolti in trecce sulla testa e ornati con fiori e foglie. Nel notare l’allegro scintillio dei suoi occhi marroni, Cazaril non riuscì a trattenersi dal sorridere a sua volta.
«Sua Grazia la Provincara vi augura un benedetto Giorno della Figlia», annunciò Betriz, poi lo costrinse a balzare indietro, assestando un calcio alla porta per spalancarla. Avanzò nella stanza con fare deciso, mettendogli in mano la candela con un distratto: «Reggete questa…» e depositando sul letto un mucchio di stoffa bianca e azzurra nonché una spada, completa di cintura. Mentre Cazaril posava la candela sulla cassapanca ai piedi del letto, aggiunse: «La Provincara vi manda questi abiti e vi chiede di raggiungere il resto della famiglia nella sala degli antenati, per le preghiere dell’alba. Dopo, faremo colazione. Ha detto che sapete benissimo come trovare la strada per la sala da pranzo».
«È vero, mia signora.»
«Ho chiesto io a mio padre la spada», continuò Betriz. «È una delle sue migliori. Per lui sarebbe stato un onore prestarvela, mi ha detto. È vero che avete preso parte all’ultima guerra?» chiese, girandosi a fissarlo con aria interessata.
«Uh… A quale vi riferite?»
«Ne avete combattuta più di una?» esclamò Betriz, sgranando gli occhi.
Credo di averle combattute tutte, negli ultimi diciassette anni, pensò Cazaril. Poi ricordò di aver perso la recente campagna contro Ibra, morta sul nascere, perché rinchiuso nelle prigioni di Brajar, e di non aver partecipato neppure alla stolta spedizione del Roya a sostegno della Darthaca, perché il generale roknari con cui il Provincar della Guarida era impegnato a trattare — peraltro con totale inettitudine -, lo stava ingegnosamente torturando. Ma, a parte quelle due, nell’ultimo decennio non c’era stata un’unica sconfitta cui non fosse stato presente.
«Alcune, qua e là, nel corso degli anni», borbottò, assalito dall’improvvisa, orribile consapevolezza che, fra la sua nudità e gli occhi di quella fanciulla, non c’era che un sottile strato di lino. Arretrò, con le mani incrociate sul ventre e un pallido sorriso sulle labbra.
«Vi ho messo in imbarazzo?» domandò Betriz, notando il suo gesto. «Mio padre dice sempre che i soldati non hanno pudore, giacché devono vivere tutti insieme, negli accampamenti.»
«Stavo pensando al vostro pudore, mia signora», riuscì a rispondere Cazaril, arrossendo.
«Allora non ci sono problemi», fu l’allegra risposta di Betriz.
La ragazza non accennava ad andarsene.
«Non era mia intenzione disturbare la famiglia nel corso della celebrazione», osservò allora Cazaril, indicando il mucchio d’indumenti. «Siete certa che…?»
Betriz congiunse le mani con aria compunta e il suo sguardo, fisso sul volto di lui, si fece più intenso. «Oh, ma voi dovete partecipare alla processione e assistere all’elargizione di doni per il Giorno della Figlia, al Tempio.» Poi, saltellando tutta allegra, gli confidò: «Quest’anno, sarà la Royesse Iselle a rivestire il ruolo della Signora della Primavera».
«D’accordo, allora, se vi fa piacere», si arrese Cazaril, con un sorriso contrito. Come poteva resistere a una supplica tanto insistente? La Royesse Iselle doveva avere quasi sedici anni… Quanti ne aveva Lady Betriz? si chiese. È troppo giovane per te, vecchio mio… Ma poteva almeno osservarla da un punto di vista meramente estetico, rendendo grazie alle Dee per la gioventù, la bellezza e l’energia che loro avevano elargito, giacché quei doni ravvivavano il mondo come altrettanti fiori.
«Inoltre è la Provincara stessa a richiedere la vostra presenza», aggiunse Lady Betriz.
Annuendo, Cazaril accese la propria candela da quella di lei e, per farle capire che era arrivato per lei il momento di andarsene — per permettergli di vestirsi -, le consegnò di nuovo la candela nella lanterna. Quella luce più intensa aveva l’effetto di farla apparire ancora più bella… come di certo faceva risultare lui ancor meno attraente. Betriz si era appena voltata per andarsene, quando Cazaril rammentò la domanda che la sera precedente si era ripromesso di porre alla prima occasione utile.
«Mia signora, aspettate…» disse.
Betriz si girò a guardarlo con un sorriso interrogativo.
«Non volevo turbare la Provincara, né porre domande alla presenza del Royse e della Royesse, ma posso sapere cosa affligge la Royina Ista? Non vorrei dire o fare qualcosa di sbagliato per semplice ignoranza…»
La luce che brillava negli occhi di Betriz si attenuò, e lei scrollò le spalle. «È stanca e nervosa… nulla di più. Speriamo che, col ritorno del sole, si sentirà meglio, dato che il suo stato pare sempre migliorare, durante l’estate.»
«Da quanto tempo vive qui con la madre?»
«Da sei anni, signore», rispose Betriz, quindi accennò una riverenza e concluse: «Ora devo andare dalla Royesse Iselle. Non fate tardi, Castillar!» Gli rivolse un altro sorriso e saettò fuori della stanza.
Cazaril non riuscì a immaginare che quella giovane dama potesse arrivare in ritardo da qualche parte, considerata l’energia di cui disponeva. Scuotendo il capo, ma con un sorriso che ancora gli aleggiava sulle labbra, procedette a esaminare i suoi nuovi abiti.
Stava passando a indumenti di seconda mano di qualità superiore… La tunica era di broccato di seta azzurro e la sopravveste, lunga fino al ginocchio, era di lana candida. Il tutto era pulito e con rammendi e macchioline praticamente invisibili… Probabilmente si trattava di una tenuta da festa scartata da dy Ferrej, oppure appartenuta addirittura al defunto Provincar. Gli abiti gli andavano un po’ larghi, ma la cintura provvedeva a mimetizzare un po’ la cosa. Col peso familiare e nel contempo estraneo della spada che gli gravava sul fianco sinistro, Cazaril lasciò di li a poco la rocca centrale e attraversò il cortile per raggiungere la sala degli antenati.