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Quello era un momento di equilibrio, la cuspide tra passato e futuro.

L’indomani, sarebbe andato a cercare quel piccolo giudice, la cui compagnia avrebbe forse dato sollievo alla sua solitudine.

A dire il vero, non sono solo, non abbastanza, pensò di lì a poco, quando gli incoerenti, osceni ululati di Dondo, liberati come sempre nell’ora della sua morte, presero a ruggire nella sua mente. Quella notte, lo spettro sembrava in preda a una furia più selvaggia che mai, tanto che le ultime vestigia di sanità mentale che esso conservava parevano essersi del tutto dissolte. Immaginando il motivo di quella rabbia, e nonostante il dolore che gli straziava il ventre, Cazaril non poté fare a meno di sorridere.

La violenza di quell’aggressione era tale che quasi perse i sensi. Poi però si costrinse a riscuotersi, terrorizzato dalla possibilità che Dondo, scatenato com’era, potesse impadronirsi del suo corpo mentre lui era ancora vivo e usarlo per qualche vile attacco ai danni di Iselle e di Bergon. Per parecchio tempo si contorse sul freddo pavimento di legno, reprimendo le urla e le oscenità che cercavano di uscirgli dalla bocca, senza più sapere con certezza a chi appartenessero quelle parole.

Quando tutto infine cessò, si ritrovò a terra, con la camicia da notte arrotolata intorno alla persona, le unghie spezzate e insanguinate; nel corso della crisi aveva vomitato, e adesso giaceva in mezzo alla sua stessa sporcizia, con la barba umida della schiuma che gli si era formata intorno alle labbra; quanto allo stomaco — Il suo gonfiore grottesco è stato solo un sogno? -sembrava tornato allo stato abituale, anche se tutta l’area addominale doleva e vibrava ancora, come un muscolo sforzato e sottoposto a una fatica eccessiva.

Non posso continuare così ancora per molto, si disse, consapevole che presto o tardi qualcosa avrebbe dovuto cedere… Il suo corpo, la sua sanità mentale, il suo respiro, la sua fede… Qualcosa.

Rialzatosi, ripulì il pavimento, si lavò nella bacinella e indossò una camicia asciutta e pulita. Poi sistemò le coltri, accese tutte le candele presenti nella stanza e strisciò di nuovo nel letto, dove giacque con gli occhi sgranati, fissi sulla luce.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo era trascorso quando le voci sommesse e i passi dei servitori nella galleria lo avvertirono che il palazzo cominciava a svegliarsi. Probabilmente si era assopito, perché le candele si erano spente senza che lui ricordasse di averle viste estinguersi. Una luce grigia filtrava da sotto la porta e intorno alle imposte.

Ben presto sarebbe giunta l’ora delle preghiere del mattino, e quella prospettiva lo consolò, benché l’idea di doversi muovere lo turbasse. Lentamente, si alzò dal letto, dicendosi che quel giorno non sarebbe stato l’unico, a Taryoon, a essere affetto dai postumi di una sbornia, sebbene lui non avesse bevuto così tanto. Dal momento che, in occasione del matrimonio, il lutto era stato accantonato, tra gli indumenti che gli erano stati donati scelse un insieme sobrio, ma nel contempo abbastanza vivace.

Una volta pronto, scese nel cortile, disponendosi ad attendere l’alba e l’arrivo dei giovani sposi. Aveva smesso di piovere, però il cielo era ancora velato di nubi. Dopo aver asciugato col fazzoletto il bordo di pietra della fontana, si sedette su di esso e scambiò un sorriso e qualche parola con un’anziana serva, che portava sulle braccia alcune lenzuola ripiegate; in fondo al cortile, un corvo stava zampettando alla ricerca di frammenti di cibo, ma, pur lanciando un’occhiata a Cazaril, non rivelò un particolare interesse nei suoi confronti. E lui si sentì più che altro sollevato da quella dimostrazione d’indifferenza.

Finalmente, sulla galleria, le porte che lui stava tenendo d’occhio si aprirono, le assonnate guardie baociane si misero sull’attenti e dall’interno giunsero alcune voci femminili, miste a una voce maschile bassa e allegra. Poi Bergon e Iselle fecero la loro apparizione, vestiti per le preghiere del mattino, la mano di lei posata con leggerezza sul braccio del marito. Nel girarsi per scendere le scale a fianco a fianco, uscirono dalla zona d’ombra della galleria.

No… L’ombra li stava seguendo.

Cazaril serrò gli occhi, poi tornò ad aprirli… e il respiro gli si bloccò in gola: la nube soffocante che aveva avvolto Iselle era ora avviluppata anche intorno a Bergon.

Nello scendere le scale, i due giovani si stavano scambiando un sorriso. La notte precedente erano apparsi eccitati, stanchi e un po’ atterriti, ma quella mattina avevano l’aspetto di due innamorati… e la coltre di oscurità ribolliva intorno a entrambi come fumo da una nave in fiamme.

«Buongiorno, Lord Caz!» salutò allegramente Iselle, quando entrambi si avvicinarono.

«Non vorresti unirti a noi?» sorrise Bergon. «Stamattina abbiamo molte cose di cui rendere grazie insieme, giusto?»

«Io… io… vi raggiungerò tra poco», balbettò Cazaril, abbozzando una parvenza di sorriso. «Ho lasciato una cosa nella mia stanza.»

Poi si alzò, precipitandosi verso le scale. Arrivato sulla galleria, si girò di nuovo a guardarli mentre attraversavano il cortile, sempre seguiti da una scia d’ombra.

L’istante successivo si sbatté alle spalle la porta della propria stanza e rimase immobile, col respiro affannoso, quasi in lacrime. «Oh, per gli Dei… Che cosa ho fatto?» gemette. «Non ho liberato Iselle, ho esteso la maledizione a Bergon!»

26

Sgomento e avvilito, Cazaril rimase nella propria camera per tutta la mattina, ma nel pomeriggio un paggio venne a bussare alla sua porta, comunicandogli che il Royse e la Royesse desideravano che lui li raggiungesse nelle loro stanze. Per un momento, lui prese in considerazione l’eventualità di fingersi malato e, sebbene non avesse bisogno di sforzarsi per apparire tale, poi si rese conto che di certo Iselle avrebbe fatto accorrere uno stuolo di medici perché si prendessero cura di lui… e il ricordo dell’ultima esperienza in quel senso, con Rojeras, lo faceva ancora rabbrividire. Con estrema riluttanza, si assestò gli abiti e percorse la galleria fino all’appartamento reale.

Le alte finestre incassate nelle pareti erano aperte per lasciar entrare la fresca aria primaverile, e Iselle e Bergon, ancora abbigliati con eleganza per aver partecipato al banchetto dato in loro onore presso il palazzo del March dy Huesta, lo stavano attendendo, l’uno seduto accanto all’altra, vicino a un tavolo su cui spiccavano carta, pergamena e alcune penne nuove. Sul lato opposto del tavolo, poi, c’era una sedia pronta. Le due teste, l’una castana e l’altra ambrata, erano accostate in una sommessa conversazione, e l’ombra fluiva ancora intorno a entrambi, vischiosa come pece bollente. Nel sentire il rumore dei suoi passi, i due giovani sollevarono lo sguardo con un sorriso, cui lui rispose con un inchino, umettandosi nervosamente le labbra.

«Adesso bisogna subito scrivere una lettera a mio fratello Orico, per informarlo di ciò che è successo e garantirgli la nostra più fedele sottomissione», esordì Iselle, indicando i fogli bianchi. «Credo che dovremmo includere alcuni stralci del contratto di matrimonio, quelli più favorevoli a Chalion, per aiutarlo a riconciliarsi col fatto compiuto. Cosa ne pensate?»

Cazaril si schiarì la gola e deglutì.

«Caz, sei pallido come un… Sei molto pallido. Sei certo di stare bene?» domandò Bergon, aggrottando le sopracciglia. «Per favore, siediti.»

Cazaril riuscì a scuotere il capo in maniera appena percettibile, tentato dal cercare rifugio dietro una menzogna… o piuttosto una mezza verità, dato che in effetti si sentiva tutt’altro che bene. «No, non sto bene, e non c’è nulla che vada bene», sussurrò, piegando a terra un ginocchio davanti al Royse, mentre continuava: «Ho commesso un terribile errore. Mi dispiace, mi dispiace davvero».