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Abbandonando il tentativo d’issarsi in sella senza sottoporre la schiena a trazioni dolorose, Cazaril si sedette sui gradini per montare, tenendo le redini del castrato baio, e rimase a guardare con affascinato interesse quattro adulti che rimproveravano un ragazzo, ponendogli domande tanto ovvie da essere addirittura retoriche. Dove sei stato? Perché lo hai fatto? erano cose che non c’era neppure bisogno di chiedere. E Perché non lo hai detto a nessuno? era un interrogativo la cui risposta stava diventando ormai evidente.

Teidez sopportò quella tempesta a labbra serrate, ma quando infine dy Sanda s’interruppe per riprendere fiato, protese la preda rossiccia verso Beetim, il capo cacciatore. «Scuoiala per me», ordinò. «Voglio la pelliccia.»

«La pelliccia non vale nulla in questa stagione, giovane signore, perché il pelo è troppo rado e si stacca», replicò il cacciatore, in tono severo, poi indicò le mammelle della volpe, gonfie di latte, e proseguì: «Inoltre porta sfortuna abbattere una madre durante la stagione della Figlia della Primavera. Adesso dovrò bruciare i baffi di questa povera bestia, altrimenti il suo spirito agiterà i miei cani per tutta la notte. E dove sono i cuccioli? Avreste dovuto uccidere anche loro, già che c’eravate, perché è crudele lasciarli morire di fame…» Appuntò uno sguardo di fuoco sullo stalliere terrorizzato e aggiunse: «O forse voi due li avete nascosti da qualche parte, eh?»

«Abbiamo cercato la tana, ma non siamo riusciti a trovarla», ringhiò Teidez, gettando con violenza l’arco sull’acciottolato.

«Quanto a te, sai che saresti dovuto venire da me…» intervenne di nuovo dy Sanda, rivolto allo sfortunato stalliere, inveendo contro di lui con termini più duri di quelli che aveva usato col Royse, per poi concludere, in tono imperioso: «Beetim, provvedi a infliggere una punizione corporale a questo ragazzo per la sua stupidità e insolenza!»

«Con piacere, mio signore», assentì Beetim, cupo in volto. Quindi si allontanò verso le stalle con la volpe in una mano e l’altra che trascinava con decisione il ragazzo.

Due stallieri anziani provvidero a scortare i cavalli nei loro stallaggi. Nel consegnare loro la cavalcatura, Cazaril si concesse di pensare con gioia alla colazione, che non sembrava più rimandata a tempo indefinito. Intanto osservava dy Sanda, il cui terrore era stato sostituito dall’ira: confiscò l’arco di Teidez e scortò in casa il giovane tetro in volto. Poco prima che la porta si richiudesse con violenza alle spalle dei due, la voce di Teidez fluttuò fino a loro in un’ultima obiezione, pronunciata in tono lamentoso. «Ma mi annoio tanto!»

Cazaril scoppiò a ridere, consapevole che quella, per un ragazzo, era un’età orribile, traboccante di slanci e di energia, tormentata da adulti incomprensibili e arbitrari, pieni d’idee stupide che escludevano la possibilità di sottrarsi alle preghiere del mattino per andare a caccia in una splendida alba di primavera… Nel sollevare lo sguardo verso il cielo, che cominciava a tingersi di un azzurro più intenso col dissiparsi delle nebbie mattutine, il Castillar rifletté che la tranquillità propria della casa della Provincara, che per lui era un vero balsamo per l’anima, doveva bruciare come acido lo spirito del povero, controllatissimo Teidez.

Considerati i loro rapporti, dy Sanda non avrebbe accolto di buon grado un consiglio da parte sua, eppure Cazaril aveva l’impressione che, se dy Sanda stava cercando di salvaguardare la propria influenza sul Royse — così da esercitarla quando il giovane fosse diventato adulto, con tutti i privilegi di un nobile di alto rango di Chalion, se non addirittura di un Roya -, allora stava procedendo nel modo più sbagliato possibile. Se avesse continuato così, Teidez si sarebbe liberato di lui alla prima opportunità.

D’altro canto, Cazaril fu costretto ad ammettere che dy Sanda era un uomo coscienzioso. Un individuo meno onesto e con maggiori ambizioni avrebbe potuto benissimo incoraggiare le tendenze di Teidez e i suoi capricci, invece di controllarli, in modo da conquistarsi il suo favore non grazie alla propria fedeltà, ma a una sorta di dipendenza. A Cazaril era capitato d’incontrare qualche rampollo di nobile famiglia rovinato in quel modo… ma era una cosa che non aveva mai visto accadere nella famiglia dy Baocia e, finché la sua educazione fosse dipesa dalla Provincara, era improbabile che Teidez corresse il rischio d’imbattersi in quel genere di parassiti. Sulla scia di quella confortante riflessione, Cazaril si costrinse infine ad abbandonare il suo sedile e ad alzarsi.

5

Il sedicesimo compleanno della Royesse Iselle cadde a metà della primavera, circa sei settimane dopo l’arrivo di Cazaril a Valenda. Il regalo inviatole dalla capitale, Cardegoss, da parte del fratello Orico, fu una splendida giumenta pomellata grigia, una scelta molto ben calcolata o assai fortunata, dato che Iselle s’innamorò immediatamente di quella bellissima cavalla, che era senza dubbio un dono davvero regale, come ammise lo stesso Cazaril. L’entusiasmo della ragazza fu tale che il Castillar riuscì ad aggirare ancora una volta il problema della mano danneggiata e della conseguente difficoltà nello scrivere. Non ebbe infatti difficoltà a persuadere Iselle a stilare un messaggio di ringraziamento di propria mano, per inviarlo alla capitale tramite il corriere reale che aveva consegnato il dono.

Nei giorni che seguirono, però, Cazaril si ritrovò oggetto d’indagini minuziose e attente, per non dire imbarazzanti, da parte di Iselle e di Betriz riguardo al suo stato di salute. Piccoli doni — frutti scelti o altre vivande prelibate -, gli vennero mandati a ogni pasto; le due giovani lo sollecitarono ad andare a letto presto e a bere un po’ di vino, senza esagerare, e a fare brevi e frequenti passeggiate in giardino. Ma quando dy Ferrej scherzò a quel riguardo con la Provincara, Cazaril apprese che Iselle e Betriz erano state costrette a moderare l’andatura nelle loro cavalcate per non aggravare la sua salute cagionevole. Per un soffio, il buon senso ebbe la meglio sull’indignazione: con espressione imperturbata, Cazaril riuscì prima a confermare la cosa e poi ad allontanarsi con un’andatura abbastanza rigida da riuscire convincente. In fondo, quelle attenzioni femminili, per quanto dettate da scopi palesemente egoistici, erano troppo adorabili per poterle respingere. E giudicare il suo stato cagionevole non era poi lontano dal vero.

Alla fine, però, vuoi per il clima sempre più mite, vuoi per un obiettivo miglioramento fisico, Cazaril riconsiderò le sue posizioni, anche perché di lì a poco la calura estiva avrebbe rallentato di nuovo il ritmo dell’esistenza. Contemporaneamente, le preoccupazioni per la sicurezza delle ragazze diminuirono: entrambe saltavano con disinvoltura i tronchi caduti, restando saldamente in sella, e percorrevano le piste tortuose lungo il fiume, simili a scintillanti chiazze dorate e verdi sotto la volta di foglie novelle.

A sorpresa, fu proprio lui a essere disarcionato, allorché il suo cavallo aveva scartato di lato con violenza dopo aver spaventato una cerva, balzata fuori da alcuni cespugli. Cazaril cadde su un mucchio di rocce e radici, ansimando, e avvertì una fitta dolorosa alla schiena. Con lo sguardo velato da lacrime di sofferenza, rimase immobile finché due spaventati volti femminili non entrarono nel suo campo visivo, stagliandosi sullo sfondo della volta di fogliame e del cielo. Con l’aiuto di entrambe le ragazze e di un tronco abbattuto, lui riuscì comunque a issarsi di nuovo in sella. Il ritorno al castello fu caratterizzato da un’andatura così composta ed elegante, per non dire colpevole, da rispondere alle preghiere di qualsiasi governante. Quando infine oltrepassarono l’arco del portone, il mondo aveva smesso di girargli intorno con piccole scosse assurde, ma la schiena continuava a dolere, anche per via di un gonfiore delle dimensioni di un uovo che probabilmente avrebbe impiegato settimane a riassorbirsi. Una volta giunto sano e salvo nel cortile, Cazaril concentrò la propria attenzione sui gradini per montare, sullo stalliere accorso ad aiutarlo e sul compito di scendere vivo da quella dannata sella. Una volta a terra, indugiò per un momento con la testa appoggiata al pomo della sella e il volto contratto in una smorfia di dolore.