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Per un lungo, snervante momento, Ista si era limitata a fissarlo. «Avete paura, Cazaril?» aveva chiesto poi, senza preamboli.

«Sì, mia signora», aveva risposto lui, con sincerità, dopo una breve riflessione.

«Dy Sanda è uno stolto. Se non altro, voi non lo siete», aveva dichiarato la Royina.

Non sapendo come ribattere, Cazaril si era limitato a un cortese cenno del capo.

«Proteggete Iselle», aveva proseguito la dama, con occhi d’un tratto dilatati dal timore. «Se mai mi avete amata, giurate sul vostro onore di proteggerla. Giuratelo, Cazaril!»

«Lo giuro.»

Ista lo aveva scrutato in volto, ma non aveva chiesto promesse più elaborate né ulteriori rassicurazioni.

«Da che cosa dovrò proteggerla?» si era comunque azzardato a chiedere Cazaril. «Cosa temete, Lady Ista?»

Lei era rimasta in silenzio, sotto la luce delle candele.

«Mia signora, vi prego, non mi mandate in battaglia alla cieca», aveva insistito Cazaril, ricordando la supplica analoga formulata da Palli.

Sbuffando, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, Ista aveva scosso il capo con aria disperata, si era girata di scatto e aveva lasciato di corsa la stanza, seguita dalla sua dama di compagnia, che sembrava ansiosa ed esasperata nel contempo.

Ormai la meta era vicina e l’eccitazione dei suoi giovani compagni di viaggio stava gradualmente scacciando dall’animo di Cazaril il ricordo della contagiosa inquietudine di Ista. Più avanti, la strada incontrava il fiume che usciva da Cardegoss, e procedeva parallelamente a esso, addentrandosi in un’area boschiva. Più avanti, c’era un altro corso d’acqua, che confluiva nel primo. Una gelida corrente d’aria attraversava la valle ombreggiata e, sulla riva del fiume opposta rispetto alla strada, s’innalzava una parete di roccia alta almeno trecento piedi, coperta di felci e con qualche stento alberello che cresceva nelle fenditure.

Soffermandosi vicino a quel bastione naturale, Iselle levò lo sguardo, mentre Cazaril si arrestava accanto a lei. Da quel punto, era impossibile vedere dove cominciavano le misere aggiunte difensive che i costruttori umani avevano posto sulla sommità di quel muro naturale.

«Oh!» mormorò Iselle.

«Per gli Dei!» esclamò Betriz, raggiungendoli e gettando a sua volta indietro il capo per guardare.

«In tutta la sua storia, la fortezza di Zangre non è mai stata conquistata con un assalto diretto», commentò Cazaril.

«Capisco», mormorò Betriz.

Alcune foglie gialle, segnali dell’autunno imminente, scivolarono via sulle acque scure del fiume mentre il gruppo riprendeva la marcia, uscendo dalla valle nel punto in cui un grande arco di pietra sovrastava il corso d’acqua, dando accesso a una delle sette porte cittadine. Cardegoss condivideva con la fortezza quella pianura scavata dai fiumi, e i bastioni si levavano lungo la sommità dei burroni circostanti con una sagoma tale da creare la forma di una barca: la fortezza era la prua e, da essa, partiva un lungo muro curvo verso l’interno che creava una specie di poppa.

Nella luce limpida di quel terso pomeriggio autunnale, la città aveva un aspetto tutt’altro che sinistro. Le stradine laterali erano piene di banchetti che offrivano cibi, fiori e altre mercanzie e affollate da uomini e donne di ogni genere: fornai e banchieri, tessitori e sarti, gioiellieri e sellai. C’erano anche le botteghe di numerosi artigiani che, per esercitare il loro mestiere, non avevano bisogno di acqua corrente e quindi potevano stare lontani dal fiume. Il gruppo reale raggiunse la cosiddetta Piazza del Tempio, dotata di cinque lati, uno per ciascuna grande casa regionale dei sacri ordini degli Dei. Là, Divini, Accoliti e Devoti andavano e venivano con un piglio indaffarato che dava loro più l’aspetto di burocrati che di asceti. Nel centro della grande piazza pavimentata spiccava poi la mole dalla familiare forma di quadrifoglio, con torre annessa, del Tempio della Santa Famiglia di Cardegoss, decisamente più vasto e impressionante di quello di Valenda.

Nonostante la malcelata impazienza del fratello, Iselle pretese di fare una sosta davanti al Tempio. Su suo ordine, Cazaril entrò nell’echeggiante cortile interno a deporre un’offerta in denaro sull’altare della Signora della Primavera, in segno di gratitudine per il buon esito del viaggio. Un’Accolita prese in consegna il denaro con qualche parola di ringraziamento e fissò con curiosità Cazaril, che si limitò a borbottare una rapida e distratta preghiera per poi uscire subito e rimontare in sella.

Nel risalire il lungo e dolce pendio che portava alla fortezza di Zangre, il gruppo percorse alcune strade lungo le quali sorgevano le alte e squadrate case dei nobili, costruite in pietra levigata e dotate d’inferriate che proteggevano porte e finestre. All’inizio della sua vedovanza, la Royina Ista aveva abitato per qualche tempo in una di esse e Iselle, piena di eccitazione, credette per tre volte di riconoscere la dimora della sua infanzia. Alla fine, confusa, desistette, facendo però promettere a Cazaril di accertare quale fosse la vera casa.

Il gruppo raggiunse così il portone della fortezza, davanti al quale il suolo del pianoro si apriva in una fenditura naturale, più profonda e minacciosa di qualsiasi fossato. Al di là di essa, c’erano le basi delle mura: enormi massi irregolari, ma così ben incastrati che tra essi non poteva passare neppure la lama di un coltello. Le mura, invece, erano in pietra finemente lavorata dai roknari, decorata con eleganti disegni geometrici, che la facevano apparire delicata come zucchero filato. Sulla sommità, tuttavia, le pietre erano squadrate in modo più grezzo. Pareva che gli uomini avessero voluto competere con gli Dei, costruendo un edificio possente al pari del baluardo di roccia su cui esso sorgeva. Zangre era l’unico castello che riuscisse a dare a Cazaril un senso di vertigine anche semplicemente guardandolo dal basso.

Dalla sommità delle mura giunse uno squillo di corno, poi alcuni soldati che indossavano la livrea del Roya Orico salutarono i nuovi venuti, mentre essi oltrepassavano il ponte levatoio e la stretta arcata di accesso al cortile. Lady Betriz prese a guardarsi intorno con le labbra socchiuse per la meraviglia, serrando le redini con un certo nervosismo. Il cortile era dominato da un’enorme torre rettangolare, edificata durante il regno del Roya Ias e di Lord dy Lutez, quindi piuttosto recente. Cazaril si era sempre chiesto se le sue grandi dimensioni fossero un indice della forza degli uomini che l’avevano eretta o non piuttosto delle loro paure. A poca distanza dalla torre squadrata, e alta quasi quanto essa, si scorgeva una torre rotonda, che incombeva sul corpo principale della fortezza; il suo tetto di ardesia era sfondato, la sua sommità infranta e irregolare.

«Dei santissimi… Cos’è successo a quella torre? Perché non la riparano?» mormorò Betriz.

«Ah, quella è la torre del Roya Fonsa il Saggio», rispose Cazaril, assumendo il suo atteggiamento da precettore, più per la propria tranquillità che per quella di Betriz. Evitò di aggiungere che, dopo la sua morte, quel sovrano era diventato comunemente noto come Fonsa l’Abbastanza Saggio. «Dicono che lui avesse l’abitudine di starvi per tutta la notte, cercando di leggere nelle stelle la volontà degli Dei e il destino di Chalion. Durante la notte in cui ha operato il suo miracolo di magia di morte a spese del Generale Dorato, una grande tempesta accompagnata da fulmini ha abbattuto il tetto e appiccato un fuoco che, nonostante la pioggia torrenziale, non si è spento fino al mattino successivo.»

L’invasione dei roknari iniziata con uno sbarco, aveva portato alla conquista della maggior parte di Chalion, di Ibra e di Brajar. Sull’onda di quei successi, i roknari avevano addirittura oltrepassato Cardegoss e si erano spinti fino ai piedi delle catene montuose meridionali, con scorrerie che avevano minacciato perfino la Darthaca. Dalle ceneri dei deboli Vecchi Regni e dalla dura culla delle colline erano però emersi uomini nuovi, che avevano combattuto per generazioni, decisi a riconquistare i territori perduti. Essendo guerrieri-ladri, avevano elevato il saccheggio a stile di vita: i nobili non creavano il loro patrimonio, lo rubavano. Una vera beffa del destino per i roknari, per i quali «riscuotere un tributo» significava mandare un gruppo di soldati a prendere con la forza tutto ciò di cui si aveva bisogno. A forza di corruzioni e di contro corruzioni, i roknari erano stati ricacciati indietro, finché Chalion non era diventata teatro di una strana danza in cui si avvicendavano eserciti e contabili. Col tempo, poi, i roknari erano stati confinati nella zona settentrionale, verso il mare, e si erano lasciati alle spalle numerosi castelli in rovina e una lunga serie di brutalità. Si erano poi ridotti a cinque principati lungo la costa orientale, in perenne lotta fra loro.