Erano trascorsi almeno dodici anni da quando l’aveva visto e il tempo non era certo stato clemente con Orico. A dire il vero, non era mai stato un uomo avvenente, neppure quand’era ancora nel fiore degli anni. Di statura leggermente inferiore alla media, Orico aveva il naso un po’ troppo corto e, purtroppo, deformato da una frattura in seguito a una caduta da cavallo avvenuta quand’era ancora un ragazzo. Ormai sembrava che, al centro del viso, pallido e gonfio, ci fosse una sorta di fungo schiacciato. Gli occhi erano segnati da spesse borse; i capelli, un tempo ramati e ricciuti, erano diventati rossicci e molto più radi; il corpo appariva vistosamente ingrassato. Mentre procedeva a spazzolarlo, Orico rivolgeva al leopardo versi gorgoglianti e il felino gli strusciava la testa contro la tunica, spargendo altro pelo, e leccando il broccato con colpi vigorosi di una lingua grande quanto uno strofinaccio. Senza dubbio, era interessato a una grossa macchia di grasso che si stendeva sull’ampio ventre del Roya. Le maniche di Orico erano arrotolate, rivelando una mezza dozzina di graffi; d’un tratto, il leopardo chiuse le fauci intorno a un braccio nudo e lo trattenne brevemente, senza però accentuare la stretta. Costringendosi a rilassare le dita, strette intorno all’impugnatura della spada, Cazaril si schiarì la gola per annunciare la propria presenza e, quando il Roya girò la testa, posò al suolo un ginocchio.
«Sire, vi porto i rispettosi saluti della Provincara della Baocia e questa sua lettera», disse, porgendo il documento. Poi, nell’eventualità che nessuno avesse ancora provveduto a informare Orico, aggiunse: «Il Royse Teidez e la Royesse Iselle sono arrivati a palazzo sani e salvi».
«Oh, sì», commentò il Roya, rivolgendo un cenno del capo all’anziano stalliere, che si avvicinò a Cazaril e gli rivolse un aggraziato inchino, prendendo la lettera.
«Sua Grazia la Provincara mi ha ordinato di consegnarla nelle vostre mani», precisò Cazaril, in tono incerto.
«Sì, sì… Aspettate un momento soltanto…»
Con uno sforzo, impacciato dal ventre sporgente, Orico si chinò in avanti per abbracciare il felino, poi attaccò una catena d’argento al collare e, con qualche altro verso d’incitamento, indusse la bestia a saltare giù dal tavolo, scendendo a sua volta con maggiore lentezza. «Prendi, Umegat», disse.
Evidentemente quello era il nome dello stalliere e non del felino, dato che l’uomo venne avanti e s’impadronì del guinzaglio d’argento, consegnando la lettera prima di condurre il leopardo verso la sua gabbia. Ve lo spinse dentro con un ginocchio senza troppe cerimonie e, mentre l’animale si sfregava contro le sbarre, Cazaril osservò lo stalliere chiudere la gabbia e si concesse un sospiro di sollievo.
Orico infranse il sigillo della lettera, spargendo frammenti di cera sul pavimento di piastrelle spazzato con cura, poi segnalò distrattamente a Cazaril di rialzarsi e si mise a leggere con fatica le righe stilate dalla Provincara nella sua calligrafia angolosa e minuta, ora avvicinando e ora allontanando il foglio per vedere meglio. Rammentando come si doveva comportare un messaggero, Cazaril incrociò le mani dietro la schiena e si dispose ad attendere di essere interrogato o congedato, a seconda delle esigenze di Orico.
Per passare il tempo, durante l’attesa indugiò a osservare lo stalliere — forse addirittura il capo stalliere? -, che era di origini roknari, cosa peraltro chiara già dal suo nome. Sebbene la sua figura fosse piuttosto curva, da giovane, Umegat probabilmente era stato alto. Così la sua pelle, che doveva aver avuto una tonalità dorata, si era incartapecorita e aveva un colore simile al cuoio. I ricciuti capelli ramati, abbondantemente striati di grigio, erano raccolti in due trecce aderenti al cranio: partivano dalle tempie e seguivano il contorno della testa, fino a incontrarsi sulla nuca in una coda ordinata, secondo un antico stile roknari. Quella pettinatura suggeriva che lui fosse un roknari di razza pura… Era però vero che, a Chalion, i mezzosangue abbondavano. Lo stesso Roya Orico aveva un paio di principesse roknari nel proprio albero genealogico, sia sul lato chalionese sia su quello brajariano, cosa che spiegava i suoi capelli ricciuti. Abbigliato con la livrea usata da tutti i servitori di Zangre — tunica e calzoni, più un tabarro lungo fino al ginocchio su cui spiccava lo stemma di Chalion, un leopardo rampante sulla sagoma stilizzata di un castello -, lo stalliere appariva molto più pulito e ordinato del suo padrone.
«La Royina Ista non ha preso bene la cosa, vero?» sospirò Orico, rivolto a Cazaril, quando ebbe finito di leggere.
«Naturalmente è rimasta turbata all’idea di doversi separare dai suoi figli», replicò lui, soppesando le parole.
«Era quello che temevo, ma non ho potuto evitarlo. Considerati i suoi disturbi, preferisco saperla a Valenda e non a Cardegoss. Non la voglio qui, perché è troppo… difficile da gestire», dichiarò Orico, sfregandosi il naso col dorso della mano. «Riferite a Sua Grazia la Provincara che gode di tutta la mia stima, e garantitele che mi preoccuperò personalmente del benessere dei suoi nipoti, che godranno della mia fraterna protezione.»
«Intendo scriverle stanotte stessa, sire, per informarla che siamo arrivati a destinazione sani e salvi, e le riferirò le vostre parole.»
Orico annuì, si massaggiò nuovamente il naso, poi fissò CazariL socchiudendo gli occhi per mettere a fuoco il suo volto. «Vi conosco?» domandò, infine.
«Io… non credo, sire. Di recente, la Provincara mi ha nominato segretario della Royesse Iselle e, in passato, quand’ero più giovane, ho servito il defunto Provincar della Baocia in qualità di paggio.» Non volendo far affiorare nella mente del Roya ricordi più recenti, Cazaril evitò di spiegare che era stato anche al servizio di dy Guarida. Senza dubbio, una certa copertura gli era garantita dalla barba, dai capelli spruzzati di grigio e dal suo aspetto generalmente debilitato. Il fatto che Orico non fosse in grado di riconoscerlo lo indusse a sperare che anche altri non sarebbero stati capaci di farlo. Nel contempo, però, si chiese per quanto tempo poteva vivere lì a Cardegoss senza rivelare il proprio nome.
Ma, a quanto pareva, il suo anonimato si sarebbe protratto ancora per qualche tempo, dato che Orico annuì con aria soddisfatta e, senza chiedergli come si chiamasse, lo congedò con un cenno della mano. «Suppongo quindi che sarete presente al banchetto», disse soltanto. «Riferite alla mia affascinante sorella che sono impaziente d’incontrarla.»
Inchinatosi, Cazaril batté in ritirata e, tormentandosi un labbro tra i denti con fare preoccupato, si diresse verso lo Zangre. Se tutta la corte sarebbe stata presente al banchetto di benvenuto di quella sera, senza dubbio ci sarebbe stato anche il Cancelliere, March dy Jironal, principale consigliere di Orico. E, dove c’era March dy Jironal, di solito si trovava anche suo fratello, Lord Dondo.
Forse neppure loro si ricorderanno di me, si disse, pensando che erano trascorsi oltre due anni dalla caduta — dalla vergognosa vendita — di Gotorget, e un tempo ancora più lungo dallo sgradevole incidente nella tenda del folle Principe Olus. Dopotutto, la sua esistenza di certo non era stata che una minuscola seccatura, per quei potenti nobili, ed essi ignoravano che lui era al corrente della verità, vale a dire del fatto che la sua vendita come schiavo era dipesa da un ponderato tradimento e non da un errore. Se non avesse fatto nulla per attirare l’attenzione su di sé, quei due non si sarebbero ricordati di nulla, e lui non avrebbe corso rischi.