Prese la tunica che aveva indossato il pomeriggio precedente, la scrollò e slacciò il polsino dell’ampia manica per recuperare la mezza forma di pane che Betriz gli aveva fatto riporre li il giorno prima, quando il picnic in riva al fiume era stato bruscamente interrotto da un acquazzone. Mentre soppesava la possibilità che, in origine, l’ampiezza di quelle maniche fosse stata studiata apposta per permettere d’immagazzinarvi viveri, posò la tunica, si tolse la camicia da notte, indossò i calzoni e si avvicinò alla bacinella per lavarsi.
In quel momento, dalla finestra aperta, giunse il rumore di uno sbattere d’ali. Colto di sorpresa, Cazaril alzò lo sguardo e vide uno dei corvi del castello atterrare sull’ampio davanzale di pietra. L’uccello piegò la testa nella sua direzione, mettendosi prima a gracchiare e poi a emettere strani borbottìi. Divertito, Cazaril si asciugò la faccia e prese un pezzetto di pane, avanzando con lentezza verso il corvo. Voleva capire se era abbastanza addomesticato da accettare il cibo dalle sue mani. E infatti il volatile lo fissò con espressione intensa, poi gli sfilò il pane dalle dita con un colpo di becco. Al contatto con quell’appendice aguzza, Cazaril cercò di non sussultare, ma si rese subito conto che il becco non lo aveva ferito. Inghiottito il pane, il corvo cambiò posizione sul davanzale, scrollò le ali, allargando la coda, cui mancavano due penne, e riprese a borbottare e a gracchiare, un aspro suono echeggiante che invase la piccola camera.
«Non dovresti dire Cra, cra! bensì Caz, Caz!» commentò Cazaril. Quindi, per parecchi minuti, si divertì a istruire il volatile nell’uso di quel nuovo linguaggio, arrivando a ripetere Cazaril! Cazaril! con una voce trillante che, a suo parere, imitava il verso di un uccello. Nonostante le abbondanti elargizioni di pane, però, il corvo sembrava ancor più refrattario all’apprendimento di una nuova lingua di quanto non lo fosse Iselle col darthacano.
Un colpo alla porta interruppe bruscamente la lezione.
«Sì?» rispose Cazaril, in tono distratto.
All’aprirsi del battente, il corvo svolazzò all’indietro e cadde dalla finestra. Cazaril seguì con lo sguardo il suo volo, osservandolo precipitare per un breve tratto e poi allargare di scatto le ali, tornando a librarsi nell’aria. Si allontanò con un moto circolare, sulla spinta di una corrente d’aria mattutina che saliva lungo la superficie del burrone.
«Mio signore dy Cazaril, la…» cominciò una voce, che poi s’interruppe di colpo.
Cazaril si voltò e, nel trovarsi davanti un paggio dall’aria sconvolta, fermo sulla soglia della sua stanza, si rese conto con un improvviso senso d’imbarazzo di non aver ancora indossato la camicia. «Sì, ragazzo?» domandò, allungando senza fretta la mano verso la tunica e scrollandola ancora, prima d’infilarla. «Cosa c’è?»
Il suo tono, pacato e indifferente, intimava a non fare commenti o domande in merito al disastro, vecchio ormai di un anno, che gli segnava la schiena. Deglutendo a fatica, il paggio infine ritrovò la voce. «Mio signore dy Cazaril… La Royesse Iselle vi prega di raggiungerla nella camera verde, subito dopo la colazione.»
«Ti ringrazio», replicò freddamente Cazaril, congedandolo poi con un cenno.
L’escursione mattutina per la quale Iselle richiedeva la scorta di Cazaril contemplava semplicemente la visita al serraglio che Orico le aveva promesso. Al suo ingresso nella camera verde, Cazaril trovò il Roya su una sedia, immerso nel sonnellino successivo alla colazione; di lì a poco, comunque, Orico si riscosse con uno sbuffo, si massaggiò la fronte come se gli dolesse, si ripulì l’ampia tunica da alcune briciole appiccicose, poi prese qualcosa avvolto in un pezzo di lino e si avviò con la sorella e con Cazaril, oltrepassando il portone del castello e addentrandosi nei giardini.
Nel cortile delle stalle, i tre s’imbatterono nel gruppo formato da Teidez e dai suoi compagni di caccia, in procinto di muoversi. Fin dal suo arrivo a Zangre, Teidez aveva implorato di poter andare a caccia e, a quanto pareva, Lord Dondo aveva realizzato il suo desiderio, chiamando a raccolta una mezza dozzina di cortigiani, stallieri, battitori, sei cani e Ser dy Sanda. In sella al suo cavallo nero, Teidez salutò con allegria la sorella e il suo regale fratello. «Lord Dondo sostiene che probabilmente la stagione non è ancora abbastanza avanzata da poter avvistare un cinghiale», gridò. «Ma forse saremo fortunati.»
Lo stalliere di Teidez, che lo seguiva in sella al proprio cavallo, trasportava un vero e proprio arsenale di armi, comprese la nuova balestra e la lancia per cinghiali. Iselle, che non era stata invitata, lanciò alla piccola compagnia uno sguardo d’invidia. Persino dy Sanda sfoggiava un sorrisetto soddisfatto di fronte alla prospettiva di una mattinata dedicata a quella nobile attività. Poi Lord Dondo lanciò un grido di entusiasmo e il gruppo uscì dal cortile al piccolo trotto.
Cazaril cercò di capire perché si sentisse a disagio a contemplare quella gradevole immagine di caccia autunnale e d’un tratto comprese: nessuno degli uomini accanto a Teidez aveva meno di trent’anni, il che significava che nessuno lo stava seguendo per amicizia o almeno nella speranza d’instaurarne una. Quei cortigiani erano mossi esclusivamente dall’interesse personale. Se avessero posseduto un minimo d’intelligenza, pensò Cazaril, quegli uomini avrebbero fatto bene a chiamare a corte i loro figli, lasciando che la natura seguisse il suo corso. Certo, anche quello era un quadro non scevro da pericoli, tuttavia…
Con passo pesante, Orico si avviò per aggirare le stalle, costringendo le dame e Cazaril a seguirlo. Il capo stalliere Umegat, che di certo era stato avvertito, li stava aspettando tutto compunto vicino alle porte del serraglio, spalancate per lasciar entrare il sole e la brezza mattutina. Mentre si avvicinavano, lo stalliere fece un profondo inchino.
«Questo è Umegat», spiegò Orico alla sorella. «Gestisce il serraglio per mio conto. È un roknari, ma sotto molti aspetti è un brav’uomo.»
Controllando un sussulto di allarme, Iselle rivolse allo stalliere un aggraziato cenno del capo. «Che i santi vi benedicano in questo giorno, Umegat…» Aveva parlato in roknari e anche in modo abbastanza corretto. L’unico neo era l’aver fatto ricorso alla forma grammaticale adatta al rapporto padrone-guerriero e non a quello padrone-servitore.
Sgranando gli occhi, Umegat s’inchinò ancor più profondamente. «La benedizione degli Altissimi scenda anche su di voi, m’hendi», rispose, con un purissimo accento dell’Arcipelago, utilizzando la forma grammaticale richiesta a uno schiavo che si rivolga al suo padrone.
Nel sentirlo parlare, Cazaril inarcò di scatto le sopracciglia, perché era chiaro che quello non era un mezzosangue chalionese. Quali vicissitudini lo avevano condotto al castello di Zangre? «Siete molto lontano da casa, Umegat», azzardò allora, spinto dalla curiosità, utilizzando la forma propria del rapporto servitore-servo inferiore.
«Avete un orecchio acuto, m’hendi», osservò Umegat, con un accenno di sorriso. «È una cosa rara, a Chalion.»
«Lord dy Cazaril è il mio maestro…» iniziò a spiegare Iselle.
«In tal caso, mia signora, siete servita in maniera eccellente», replicò Umegat, poi si girò verso Cazaril e, passando alla forma servitore-studioso, una raffinatezza grammaticale ancora superiore alla modalità servitore-padrone, aggiunse: «Adesso, Saggio, Chalion è la mia casa…»
«Mostriamo a mia sorella i miei animali», intervenne Orico, annoiato da quelle amenità bilingui. Con un sorriso da cospiratore, sollevò il pacchettino avvolto nel tovagliolo e proseguì: «A colazione, ho rubato un favo per i miei orsi, e ben presto il miele comincerà a colare, se non mi libero di questo fagotto».
Ricambiando il sorriso, Umegat li precedette all’interno del serraglio, che quella mattina sembrava ancora più pulito e ordinato di quanto Cazaril lo rammentasse. Senza dubbio era più pulito delle sale per i banchetti di Orico.