«Più elevato del costo generato da questo interminabile fiume di sangue e di disonestà che scorre nel nord?» chiese Iselle, soppesando le parole. «Se lo si facesse una volta, nel modo giusto, il problema sarebbe risolto per sempre.»
«Ma non c’è nessuno in grado di realizzare una cosa del genere. Il Roya di Brajar è un vecchio ubriacone che pensa solo a divertirsi con le dame della sua corte, la Volpe di Ibra è perennemente impegnata in una guerra civile, e Chalion…» Cazaril s’interruppe, rendendosi conto che il ridestarsi di emozioni sopite lo stava inducendo a parlare con una franchezza assai poco saggia e diplomatica.
«Teidez…» mormorò Iselle. «Forse questo nobile compito spetterà a Teidez, una volta che sarà diventato adulto.»
Non addosserei a nessuno un simile fardello, pensò Cazaril. Doveva tuttavia ammettere che il ragazzo sembrava dotato di un certo talento in quella direzione. Certo, sarebbe stato necessario insegnargli come farlo affiorare e indirizzarlo nel modo giusto…
«La conquista non è l’unico modo per unire i popoli», interloquì Betriz. «Esiste anche il matrimonio.»
«Sì, ma nessuno potrebbe mai unire in questo modo tre royacy e cinque principati», obiettò Iselle, arricciando il naso. «Non in una volta sola, comunque.»
L’uccello verde, forse irritato dal fatto che il suo pubblico si era distratto, scelse proprio quel momento per fare sfoggio della propria conoscenza del roknari con una frase particolarmente lasciva. Era senza dubbio appartenuto a un marinaio, probabilmente in servizio su qualche galea, rifletté Cazaril e sogghignò. Anche Umegat sorrise, ma poi inarcò le sopracciglia nel vedere Betriz e Iselle serrare di scatto le labbra, tingersi di un velato rossore e scambiarsi un’occhiata. Con noncuranza, allora, lo stalliere prese un piccolo cappuccio e lo infilò sulla testa del volatile.
«Buonanotte, mio verde amico», gli disse. «Credo che tu non sia ancora pronto per trattare con l’alta società locale. Forse Lord dy Cazaril dovrebbe passare di qui, ogni tanto, e insegnarti anche un po’ di roknari di casta alta.»
Cazaril stava per commentare che Umegat sembrava perfettamente in grado di assolvere quel compito, allorché venne distratto da un rumore di passi che proveniva dalla porta della voliera. Era Orico, che avanzò, sorridente, mentre si puliva sui calzoni le mani sporche di saliva dell’orso.
Il commento fatto dal siniscalco il giorno stesso del loro arrivo corrispondeva alla realtà, pensò allora Cazaril. Quel serraglio era fonte di enorme consolazione per Orico, che adesso aveva lo sguardo limpido e il volto soffuso di un colorito sano, senza più traccia dello sfinimento manifestato subito dopo la colazione.
«Dovete venire a vedere i miei gattoni», annunciò il Roya alle due dame.
Il gruppetto lo seguì lungo il corridoio di pietra, mentre lui mostrava con orgoglio alcune gabbie contenenti un paio di splendidi felini dal pelo dorato, con grossi ciuffi di pelo sulle orecchie, che provenivano dalle montagne nella parte sud di Chalion; un’altra gabbia ospitava un raro esemplare albino della stessa razza, con gli occhi azzurri e le orecchie sovrastati da ciuffi di pelo nero. Quell’estremità del corridoio accoglieva anche un paio di creature — volpi del deserto dell’Arcipelago, a detta di Umegat — simili a lupi, ma ossute e di taglia più piccola, con enormi orecchie triangolari e un’espressione insolitamente cinica.
Infine Orico mostrò loro il leopardo, senza dubbio il suo animale preferito. Condotto fuori dalla gabbia mediante il guinzaglio d’argento, il grosso felino prese a sfregarsi contro le gambe del Roya, emettendo strani, piccoli versi gorgoglianti. Cazaril trattenne il fiato quando Iselle, incoraggiata dal fratello, s’inginocchiò per accarezzare il leopardo, accostando il volto a quelle fauci possenti. La giovane cominciò a grattarlo sotto il muso, passando nel contempo la mano sullo splendido pelo maculato e, sebbene i tondi occhi ambrati dell’animale apparissero tutt’altro che amichevoli, esso socchiuse le palpebre con aria palesemente beata, l’ampio naso rossiccio che vibrava di piacere.
Incoraggiato, Cazaril provò a inginocchiarsi a sua volta, ma il ronfare del felino assunse subito un altro tono, che a lui parve ostile. Gli occhi ambrati, poi, lo scrutavano con tale freddezza da indurlo a rialzarsi.
Il Roya decise di trattenersi nel serraglio per parlare col capo stalliere, quindi toccò a Cazaril riaccompagnare le dame allo Zangre. Lungo il tragitto esse discussero allegramente, cercando di capire qual era la bestia più interessante.
«Secondo voi, qual è l’esemplare più strano, là dentro?» domandò infine Betriz a Cazaril.
Lui esitò un istante prima di replicare, ma alla fine decìse di rispondere con sincerità. «Umegat.»
Betriz stava per ribattere a quella che pensava fosse una battuta scherzosa, ma poi vide Iselle scoccare a Cazaril un’occhiata penetrante e tacque. Sui tre scese un pensoso silenzio, che continuò a regnare finché non raggiunsero il portone del castello.
L’accorciarsi delle giornate, dovuto al sopraggiungere dell’autunno, non venne vissuto come una perdita dagli abitanti del castello di Zangre. Le notti, infatti, continuarono a essere movimentate da banchetti e feste; i cortigiani sembravano fare a gara nell’offrire intrattenimenti, spendendo denaro a piene mani e sforzando al massimo la loro ingegnosità. Teidez e Iselle ne erano abbagliati, ma la fanciulla non perse del tutto il suo senso critico. Anzi, grazie ai commenti sussurrati da Cazaril, la Royesse cominciò a cogliere messaggi nascosti, a intuire intenzioni, aspettative e spese calcolate in previsione di qualche futuro vantaggio.
Teidez, invece, almeno secondo Cazaril, stava assorbendo ogni cosa. Gli scontri sempre più frequenti e aperti tra lui e dy Sanda ne erano un segno: il tutore si ostinava a combattere una battaglia persa in partenza, deciso com’era a costringere il ragazzo a osservare la disciplina vigente nella casa della Provincara. La stessa Iselle cominciò a preoccuparsi per i crescenti segni di tensione tra il fratello e il suo tutore. Cazaril lo comprese una mattina, quando Betriz, con fare noncurante, lo prese in disparte, e lo portò verso una finestra che sovrastava la confluenza dei due fiumi e buona parte dell’entroterra di Cardegoss. Dopo qualche vago commento sul clima, che rispecchiava la stagione, e sulla caccia, Betriz passò all’argomento che le stava a cuore. «Qual è stato il motivo della spaventosa lite che Teidez e il povero dy Sanda hanno avuto la scorsa notte?» chiese, in un sussurro. «Urlavano a tal punto che li sentivamo attraverso le finestre e il pavimento.»
«Uh… ecco…» annaspò Cazaril. Come poteva spiegare l’accaduto? Non era certo adatto alle orecchie di una fanciulla… Sarebbe stato più facile parlarne con Nan dy Vrit, dato che quella vedova piena di buon senso partecipava senza dubbio a tutte le discussioni che si svolgevano al piano di sopra. D’altro canto, era meglio essere franco che rischiare un fraintendimento, ed era di gran lunga meglio esserlo con Betriz, che non con Iselle. Betriz non era una bambina e, soprattutto, non era la sorella di Teidez: sarebbe stata più adatta di lui a decidere cosa riferire a Iselle e cosa tenere per sé. «La scorsa notte, Dondo dy Jironal ha portato a Teidez una donna a pagamento. Naturalmente, dy Sanda l’ha subito buttata fuori, e Teidez si è infuriato», spiegò allora. Teidez era furioso, a disagio, ma forse anche segretamente sollevato. Più tardi, nel corso della notte, era stato male per il troppo vino… Ah, la splendida vita di corte!
«Oh!» commentò Betriz che, con sollievo di Cazaril, non appariva eccessivamente sconvolta. «Oh», ripeté, chiudendosi poi in un silenzio assorto. Fissava la pianura dorata che si stendeva al di là del fiume e l’ampia vallata, dove il raccolto era ormai stato quasi ultimato. Infine, mordendosi un labbro, riportò lo sguardo su Cazaril e, in tono preoccupato, riprese: «Non è… Di certo non… Voglio dire, c’è senza dubbio qualcosa di molto strano nello spettacolo offerto da un quarantenne come Lord Dondo, che frequenta con assiduità un ragazzino di quattordici anni».