«Così va meglio, molto meglio», approvò la Provincara. «Mi piacciono gli uomini che sanno usare il cervello. Dy Ferrej… Porta una sedia per il Castillar e una anche per te: fermo lì, incombi come un corvo», aggiunse, rivolgendo un cenno al siniscalco.
Forse abituato a essere apostrofato in quel modo, il siniscalco si limitò ad assentire con un sorriso, poi accostò un seggio intagliato per Cazaril, accompagnando il gesto con un sommesso e gratificante: «Il mio signore vorrebbe accomodarsi?» Andò quindi a prendere un’altra sedia nella stanza accanto, sistemandosi a una certa distanza dalle due dame e dal loro ospite.
Rialzatosi, lui si abbandonò con sollievo all’accogliente abbraccio della sedia. «Quelli che ho visto sopraggiungere a cavallo al momento del mio arrivo erano il Royse e la Royesse, Vostra Grazia?» chiese, esitante. «Non vi avrei mai disturbato con la mia presenza, se avessi saputo che avevate simili visitatori…» In realtà, non avrebbe osato farlo.
«Non sono in visita, Castillar. Attualmente vivono qui, presso di me, perché Valenda è una città pulita e tranquilla e… mia figlia non sta molto bene. Il suo ritiro qui, dopo la vita frenetica della corte, le sta portando giovamento.»
Per i cinque Dei, anche Lady Ista è qui? Anzi, per essere precisi, la Royina Vedova Ista,pensò Cazaril. Era entrato al servizio del Provincar della Baocia all’epoca in cui era poco più di un ragazzino — come del resto lo erano tutti i paggi -, ma la figlia minore della Provincara, Ista, sembrava già un’adulta, benché fosse poco più vecchia di lui. Per sua fortuna, e nonostante la giovane età, non era stato così avventato da confidare a qualcuno la propria infatuazione senza speranza per quella giovane dama. E il matrimonio di Ista col Roya Ias — il primo per lei, il secondo per lui — avvenuto qualche tempo dopo, era sembrato il giusto destino per una donna così bella, benché tra i due ci fosse una notevole differenza d’età. Aveva ovviamente pensato che Ista sarebbe rimasta vedova, ma forse ciò non era accaduto tanto presto.
La Provincara sembrò accantonare la propria stanchezza con un gesto impaziente. «Cosa mi dite di voi?» chiese. «L’ultima volta che ho avuto vostre notizie, facevate il corriere per conto del Provincar della Guarida.»
«Questo è stato… alcuni anni fa, Vostra Grazia.»
«Come siete giunto qui? E dov’è la vostra spada?» insistette lei, squadrandolo da capo a piedi.
«Ah, quella», replicò lui, abbassando distrattamente la mano verso il fianco, dove non c’erano né cintura né spada. «L’ho persa a… Ecco, quando ha condotto le forze del Roya Orico verso la costa settentrionale per la campagna invernale, tre anni fa, il Marqess dy Jironal mi ha nominato castellano della fortezza di Gotorget. Poi dy Jironal ha subito quella sconfitta… e noi abbiamo tenuto la fortezza per nove mesi contro le forze dei roknari. Sapete come vanno queste cose. Quando ci è giunta notizia che dy Jironal aveva stipulato un nuovo trattato, il quale ci obbligava a deporre le armi, uscire dalla fortezza e consegnarla ai nostri nemici… be’, ormai, in tutta Gotorget non c’era più neanche un topo che non fosse stato arrostito», proseguì, con un sorrisetto tirato, mentre la mano sinistra gli si contraeva in grembo. «Per mia consolazione, mi è stato detto che, stando a quel trattato, la nostra fortezza era costata al principe dei roknari ben trecentomila reali in più. Senza considerare le considerevoli perdite da luì subite sul campo nei nove mesi della nostra resistenza.» Magra consolazione, considerati gli uomini morti a Gotorget, pensò. «Il generale dei roknari ha requisito la spada di mio padre, affermando che l’avrebbe appesa nella sua tenda, per ricordarsi di me, e quella è stata l’ultima volta in cui l’ho vista. E dopo…» La voce, che si era fatta sempre più decisa con l’affiorare dei ricordi, d’un tratto gli si spense. «Dopo, c’è stato un errore, una confusione di qualche tipo», riprese. «Quand’è arrivato l’elenco degli uomini da riscattare, insieme con le casse piene di reali, ho scoperto che il mio nome non era nell’elenco. Il quartiermastro roknari ha giurato che non c’era stato nessun errore, perché le cifre corrispondevano ai nomi, però un errore c’è stato. Tutti i miei ufficiali sono stati riscattati, mentre io… sono stato messo con gli uomini per cui non era stato pagato nessun riscatto e condotto a Visping. Lì siamo stati tutti venduti come schiavi da galea ai corsari roknari.»
La Provincara reagì con un sonoro sussulto, mentre il siniscalco, che si era proteso sempre più in avanti mentre il racconto si dipanava, esclamò: «Di certo avrete protestato!»
«Oh, per i cinque Dei, ho protestato, eccome. L’ho fatto per tutta la strada fino a Visping, e stavo ancora protestando quando mi hanno trascinato lungo la passerella e incatenato al mio remo. Ho continuato a protestare finché non abbiamo preso il largo, ma poi… ho imparato che era meglio non farlo.» Cazaril sorrise di nuovo, ma in modo ancor più tirato, quasi avesse indosso una maschera. «Sono rimasto imbarcato su questa o quella nave per… molto tempo.» L’aveva calcolato: diciannove mesi e otto giorni. A quell’epoca, però, non era neppure in grado di distinguere un giorno dal successivo. «Poi la nave corsara su cui ero si è imbattuta nella flotta reale di Ibra, che si trovava al largo per effettuare delle manovre. Si è trattato di un colpo di fortuna del tutto insperato. I rematori volontari di Ibra hanno manovrato i remi meglio di noi, e ben presto ci hanno raggiunti.»
Quel giorno, i roknari, sempre più disperati, avevano decapitato due uomini, colpevoli di aver sbagliato — volontariamente o accidentalmente — a manovrare i loro remi. Uno di essi era stato seduto accanto a Cazaril, anzi era stato il suo compagno di voga per mesi. Quando lo avevano decapitato, un po’ del suo sangue era schizzato in bocca a Cazaril, tanto che ancora adesso, se commetteva l’errore di ripensare a quell’episodio, gli pareva di sentirne il sapore.
Una volta sconfitta la nave corsara, gli ibrani avevano trascinato i roknari, alcuni ancora agonizzanti, dietro la nave, legandoli poi a corde fatte dei loro stessi intestini, finché i pesci non li avevano divorati. Alcuni degli schiavi liberati avevano aiutato con entusiasmo a remare, ma non Cazariclass="underline" quell’ultima fustigazione lo aveva ridotto talmente male che, entro poche ore, i roknari lo avrebbero di certo gettato in mare, ritenendolo ormai un peso inutile. Era rimasto seduto sul ponte, piangendo come un bambino, coi muscoli che si contraevano in maniera incontrollabile.
«Quei bravi ibrani mi hanno sbarcato a Zagosur. E lì sono rimasto a lungo malato. Quando si è sottoposti per mesi a uno stato intollerabile di tensione, e tale stato di colpo viene a cessare, capita di comportarsi in maniera… alquanto infantile», spiegò, fissando i presenti con un sorriso di scusa. Prima aveva avuto un collasso, accompagnato da una violenta febbre; poi, mentre la sua schiena cominciava a guarire, erano subentrate la dissenteria e la febbre malarica. Per tutto quel tempo, era stato assalito a tratti da incontrollabili crisi di pianto. Gli capitava di piangere quando un’Accolita del Tempio gli portava la cena o quando vedeva sorgere o tramontare il sole, ma anche se un gatto lo spaventava o se lo accompagnavano a letto. Talvolta scoppiava in lacrime senza nessun motivo. «Il Tempio Ospedale della Misericordia della Madre mi ha accolto e curato. Dopo qualche tempo, mi sono sentito meglio…» — le crisi di pianto erano quasi cessate e gli Accoliti avevano deciso che non era pazzo, ma soltanto esaurito — «… e allora mi hanno dato un po’ di denaro e sono venuto fin qui a piedi, un viaggio che mi ha richiesto tre settimane.»
Cazaril tacque e sulla stanza scese un silenzio assoluto.
Sollevando lo sguardo, lui vide che la Provincara aveva le labbra serrate in un’espressione d’ira, e si sentì contrarre lo stomaco per il terrore. «Questo è l’unico posto cui sono riuscito a pensare!» si affrettò a giustificarsi. «Mi dispiace, mi dispiace davvero…»