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«Inoltre è la Provincara stessa a richiedere la vostra presenza», aggiunse Lady Betriz.

Annuendo, Cazaril accese la propria candela da quella di lei e, per farle capire che era arrivato per lei il momento di andarsene — per permettergli di vestirsi -, le consegnò di nuovo la candela nella lanterna. Quella luce più intensa aveva l’effetto di farla apparire ancora più bella… come di certo faceva risultare lui ancor meno attraente. Betriz si era appena voltata per andarsene, quando Cazaril rammentò la domanda che la sera precedente si era ripromesso di porre alla prima occasione utile.

«Mia signora, aspettate…» disse.

Betriz si girò a guardarlo con un sorriso interrogativo.

«Non volevo turbare la Provincara, né porre domande alla presenza del Royse e della Royesse, ma posso sapere cosa affligge la Royina Ista? Non vorrei dire o fare qualcosa di sbagliato per semplice ignoranza…»

La luce che brillava negli occhi di Betriz si attenuò, e lei scrollò le spalle. «È stanca e nervosa… nulla di più. Speriamo che, col ritorno del sole, si sentirà meglio, dato che il suo stato pare sempre migliorare, durante l’estate.»

«Da quanto tempo vive qui con la madre?»

«Da sei anni, signore», rispose Betriz, quindi accennò una riverenza e concluse: «Ora devo andare dalla Royesse Iselle. Non fate tardi, Castillar!» Gli rivolse un altro sorriso e saettò fuori della stanza.

Cazaril non riuscì a immaginare che quella giovane dama potesse arrivare in ritardo da qualche parte, considerata l’energia di cui disponeva. Scuotendo il capo, ma con un sorriso che ancora gli aleggiava sulle labbra, procedette a esaminare i suoi nuovi abiti.

Stava passando a indumenti di seconda mano di qualità superiore… La tunica era di broccato di seta azzurro e la sopravveste, lunga fino al ginocchio, era di lana candida. Il tutto era pulito e con rammendi e macchioline praticamente invisibili… Probabilmente si trattava di una tenuta da festa scartata da dy Ferrej, oppure appartenuta addirittura al defunto Provincar. Gli abiti gli andavano un po’ larghi, ma la cintura provvedeva a mimetizzare un po’ la cosa. Col peso familiare e nel contempo estraneo della spada che gli gravava sul fianco sinistro, Cazaril lasciò di li a poco la rocca centrale e attraversò il cortile per raggiungere la sala degli antenati.

Nel cortile l’aria era fredda e umida, i ciottoli erano scivolosi sotto le suole sottili degli stivali e si scorgevano ancora alcune stelle. Socchiusa la massiccia porta di legno della sala, Cazaril sbirciò all’interno, individuando varie candele accese e alcune figure. Chiedendosi se fosse arrivato in ritardo, sgusciò dentro e attese che la vista si adattasse alla penombra.

Si rese conto di non essere in ritardo, bensì in anticipo. Una mezza dozzina di candele quasi consumate ardeva davanti alle piccole lapidi di famiglia e due donne, avvolte in scialli, sedevano sulla prima panca, occupate a vegliare su una terza figura.

La Royina Vedova Ista giaceva prona davanti all’altare in un atteggiamento d’intensa supplica, con le braccia protese, le mani che si serravano e si rilassavano, le unghie rosicchiate a sangue. La massa di camicie da notte e di scialli in cui era avvolta formava una chiazza intorno a lei e i folti capelli crespi — un tempo dorati e ora invece di un’opaca tinta castana — si allargavano intorno alla sua testa come un ventaglio, incorniciando il volto pallido, girato lateralmente con la guancia appoggiata sul pavimento. Gli occhi, grigi e fissi, erano aperti, lucidi di pianto trattenuto.

Quello era il volto di chi aveva sperimentato il più profondo dolore. A Cazaril rammentò l’espressione degli uomini spezzati nel corpo e nell’anima a causa della prigionia e degli orrori delle galee… Ma ricordò anche il proprio volto, riflesso in uno specchio di lucido acciaio, nella Casa della Madre, a Ibra, quando gli Accoliti lo avevano rasato, incitandolo poi a verificare quanto il suo aspetto fosse migliorato. Era peraltro assolutamente certo che la Royina non si fosse mai neppure avvicinata a una segreta in tutta la sua vita, che non avesse mai avvertito il morso di una frusta né fosse mai stata colpita da un uomo in preda all’ira. E dunque cosa può averla ridotta così? si chiese, rimanendo immobile, con le labbra socchiuse, timoroso di parlare.

Uno scricchiolio e un fruscio provenienti da un punto alle sue spalle lo indussero a girarsi e lui vide la Provincara e sua cugina sgusciare nella sala. Nel passargli accanto, la Provincara inarcò appena un sopracciglio, gesto cui lui rispose con un accenno d’inchino, poi si diresse verso le due dame di compagnia, che sussultarono e si alzarono con una riverenza.

Avanzando lungo la navata, tra le panche, la Provincara si soffermò a contemplare la figlia. «Oh, Dei! Da quanto tempo è qui?» chiese, senza tuttavia manifestare nessuna emozione particolare.

«Si è alzata nel cuore della notte, Vostra Grazia», rispose una delle dame, con un’altra riverenza. «Abbiamo pensato fosse meglio permetterle di venire qui, piuttosto che ostacolarla. Come voi ci avete ordinato…»

«Sì, sì», la interruppe la Provincara, con un gesto spazientito. «Ha dormito almeno un poco?»

«Una o due ore, credo, mia signora.»

Sospirando, la Provincara s’inginocchiò accanto alla figlia, e la sua voce suonò d’un tratto gentile, senza la consueta asprezza. Per la prima volta, Cazaril avvertì in essa il peso degli anni.

«Ista, tesoro, alzati e torna a letto. Per oggi, provvederanno altri a continuare le preghiere.»

Le labbra della donna prostrata si mossero due volte, prima di riuscire a emettere un fievole sussurro. «Se gli Dei non ci sentono… e se pure ci sentono, non parlano. Il loro viso è distolto da me, madre.»

Con un gesto quasi goffo, la vecchia le accarezzò i capelli. «Altri pregheranno, oggi. Accenderemo nuove candele e tenteremo ancora. Ora lascia che le tue dame ti rimettano a letto. Suvvia, alzati.»

La Royina tirò su col naso, sbatté le palpebre e obbedì con riluttanza. In risposta a un secco cenno del capo della Provincara, le due dame di compagnia si affrettarono a guidare la Royina fuori della sala, raccogliendo lungo la strada gli scialli che lei lasciava cadere dietro di sé. Quando gli passò accanto, Cazaril la scrutò in volto con ansia, senza però scorgere quella tonalità gialla della pelle e quei lineamenti emaciati che potevano indicare la tisi. Quanto alla Royina, non parve neppure vederlo e non dimostrò di riconoscere quello sconosciuto dalla barba brizzolata… Del resto, non c’era motivo per cui dovesse ricordarsi di lui, considerato che era stato soltanto uno dei molti paggi che, nel corso degli anni, si erano avvicendati al servizio della famiglia dy Baocia.

Quando la porta si richiuse alle spalle della figlia, la Provincara distolse infine lo sguardo da essa, e Cazaril la vide sospirare silenziosamente.

«Ringrazio Vostra Grazia per questi abiti da festa», disse, con un inchino, poi esitò, e aggiunse: «Se c’è qualcosa che posso fare per alleggerire il vostro fardello, signora, o quello della Royina, non avete che da dirlo».

Sorridendo, la dama gli batté un colpetto sulla mano, senza però rispondere, quindi andò ad aprire le imposte della finestra esposta a est, in modo da lasciar entrare la luce rosata dell’alba. Vicino all’altare, Lady dy Hueltar provvide a spegnere le candele quasi consumate e a gettarle in un cestino che aveva portato con sé a quello scopo. Poi la Provincara e dy Cazaril l’aiutarono a sostituire quei mozziconi con nuove candele di cera; quando infine dozzine di piccole luci furono accese davanti alle rispettive tavolette, disposte in fila come soldatini, la Provincara indietreggiò di un passo, annuendo con aria soddisfatta.

In quel momento, il resto della famiglia e della servitù cominciò ad arrivare. Cazaril si sedette su una delle ultime panche, in un angolo appartato, mentre cuochi, servitori, garzoni di stalla, paggi, il capo cacciatore e il falconiere, la governante e il siniscalco, tutti con indosso i loro abiti migliori e con la massima quantità di azzurro e di bianco possibile, andarono a prendere posto. Le ultime ad arrivare furono Lady Betriz e la Royesse Iselle, che procedeva un po’ rigida, avvolta com’era nelle elaborate vesti a ricami vivaci e a molteplici strati, proprie della Signora della Primavera, che quel giorno era stata eletta a impersonare. Scélta una delle prime panche, le due ragazze sedettero con aria attenta e concentrata, riuscendo per una volta a non ridacchiare. Subito dopo fece il suo ingresso un Divino della Sacra Famiglia, proveniente dal Tempio cittadino e avvolto non nelle vesti nere e grigie proprie del Padre, indossate fino al giorno precedente, bensì in quelle bianche e azzurre proprie della Figlia. Il Divino guidò l’assemblea in una breve cerimonia per propiziare il cambiamento di stagione e la pace dei morti, che essa rappresentava; poi, quando i primi raggi del sole penetrarono attraverso la finestra esposta a est, spense l’ultima candela, l’unica fiamma ancora presente in tutto il castello.